Danno da abbandono genitoriale: la prescrizione del diritto al risarcimento

a cura di Rebecca Gelli, avvocato in Treviso

La maggiore sensibilità degli operatori del diritto, rispetto alle esigenze di tutela delle posizioni giuridiche soggettive, all’interno delle formazioni sociali in cui si svolge la personalità del singolo, ha comportato una progressiva dilatazione dell’ambito di operatività dell’illecito civile che ha conquistato nuovi spazi applicativi anche nel campo giusfamiliare: e ciò sia per effetto di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2043 c.c., alla luce dell’art. 2 Cost., sia in seguito all’introduzione per via legislativa dell’art. 709 ter c.p.c. (AA.VV., La responsabilità nelle relazioni familiari, a cura di Sesta, Torino, 2008).

Pertanto, oggi, non è revocabile in dubbio che la violazione dei doveri imposti dal codice civile, in capo a soggetti legati da rapporto di parentela, possa dar luogo a un obbligo di risarcimento del danno, quale proiezione di una responsabilità aquiliana (Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, e Cass., 10 maggio 2005, n. 9801).

Sulla scorta di tale presupposto, la Cassazione ha, dunque, rigettato il ricorso proposto dal padre naturale, nei confronti della figlia maggiorenne, confermando la sentenza d’appello che, a fronte di un abbandono protratto per venticinque anni, lo aveva condannato al pagamento di una somma di circa euro 60.000,00, a titolo di risarcimento del danno da deprivazione del rapporto genitoriale.

Nella fattispecie, il ricorrente aveva impugnato la pronuncia, adducendo una presunta violazione di legge, per omessa applicazione, da parte del giudice a quo, della disposizione di cui all’art. 2947 c.c.: ad avviso del ricorrente, la domanda attorea avrebbe dovuto, infatti, essere rigettata per intervenuta prescrizione del diritto, con il raggiungimento della maggiore età della figlia.

Secondo la Corte, la censura non merita, tuttavia, accoglimento: l’illecito endofamiliare da protratto abbandono della prole produce, infatti, un danno psicologico-esistenziale che investe la formazione della personalità del danneggiato, condizionando lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e autodifesa (Cass., 10 giugno 2020, n. 11097).

In mancanza di limitazioni legali, la natura del diritto azionato rende, dunque, giustificabile l’esercizio dell’azione dopo il compimento del diciottesimo anno di età, in una fase di maturità che sia compatibile con l’effettiva acquisizione da parte del figlio di un’adeguata capacità di percepire il pregiudizio che ha subito e di reagire di conseguenza (Cass., 22 novembre 2013, n. 26205).

Il parametro tradizionale dell’ordinaria diligenza si concretizza nella capacità di percepire in senso pieno la conseguenza dannosa della condotta pregiudizievole da parte di un soggetto “ordinario”, che tiene quindi una condotta non anomala nell’ambito della propria vicenda. E nessuna anomalia è stata rinvenuta nella condotta della figlia che ha agito in giudizio quando già da tempo era divenuta maggiorenne.

Tale comportamento non può essere interpretato come una tardiva reazione difensiva né come una concausa del danno patito. Quando il disinteresse del genitore inizia dalla nascita del figlio, lede la stessa formazione della sua personalità e quindi incide sull’acquisizione della capacità di percepire correttamente e di reagire conseguentemente. La vittima dell’abbandono deve svincolarsi dal desiderio filiale istintivo di costruire un rapporto positivo col genitore, per raggiungere una maturità personale pienamente autonoma, capace di percepire la reale situazione a sé pregiudizievole e di assumere decisioni di reazione e contrasto nei confronti del genitore “desiderato”.

In pratica, poiché a norma dell’art. 2935 c.c., la prescrizione comincia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, il dies a quo prescrizionale dev’essere postergato al momento in cui, tenuto conto della peculiarità della fattispecie, il danneggiato venga a piena ed effettiva conoscenza del danno e sia conseguentemente messo in condizione di esercitare, con consapevolezza, il suo diritto.

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