Il bambino con patologia cronica: come si declina la legge n. 219/2017

Il consenso informato è condizione di liceità di qualsiasi prestazione di cura, quindi anche di quella rivolta ai piccoli pazienti, fragili e con bisogni speciali, perché senza prospettiva di guarigione ma con possibilità di cura.
Di loro si occupa “La carta dei diritti del bambino inguaribile”dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, adottata dopo la recente legge n. 219/2017 sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento.


Il primo comma dell’art. 1 affronta subito la specificità della cura del bambino “inguaribile”, chiarendo che i protagonisti dell’alleanza terapeutica sono in questo caso la famiglia e il medico.

 

È ormai dato acquisito che la malattia grave, cronica o terminale di un bambino è una malattia famigliare: per il rapporto strutturale ed emotivo che lega i bambini ai genitori, ai fratelli e alle sorelle, ma anche perché genitori, fratelli e sorelle ne condividono inevitabilmente le conseguenze psicologiche.
Questi legami per il piccolo paziente sono di natura primaria.
I bambini sono “allocentrici”, incentrati sulla relazione con l’altro, da cui dipendono.
Ricordo una domanda eloquente che mi ha posto un bambino di sei anni .. Come mai la mia mamma è diventata così brutta? È un quesito che racchiude in sé un universo... quel bambino, semplicemente osservando mamma e papà, ha avuto istantaneamente la netta sensazione di essere molto grave” (dott. Prof. Momcilo Jankovic responsabile del Day-Hospital di Ematologia Pediatrica della Clinica Pediatrica dell’Università di Milano-Bicocca, Fondazione MBBM, Azienda Ospedaliera San Gerardo di Monza – in Repubblica.it 23 gennaio 2017)
Ogni nucleo familiare ha il suo equilibrio, la sua normalità, ma la diagnosi di malattia (soprattutto se inguaribile) di un figlio cambia improvvisamente tempi e stili di vita, imponendo di concentrare sul presente ogni energia risorsa ed organizzazione. Una sorta di corsa contro il tempo fatta di tensione emotiva, preoccupazioni di cura, impegno pratico.
Il nucleo familiare influenza inevitabilmente il decorso e la risposta alle terapie di un piccolo paziente, perché è in prima linea nel supporto emozionale e di cura: essendo da lui inscindibili, i familiari devono essere coinvolti nell’alleanza terapeutica e destinatari di attenzione e di supporto da parte dei sanitari.
L’art. 8 comma secondo specifica che “il mantenimento del legame affettivo tra genitori e figlio è parte integrante del processo di cura. Curando i bambini, si cura l’intero nucleo familiare”.
Il comma terzo aggiunge che “il rapporto di accudimento e di accompagnamento genitore/bambino va favorito con tutti gli strumenti necessari e costituisce parte fondamentale della cura, ivi comprese le patologie non guaribili e le situazioni in evoluzione terminale”.
Per questo il protocollo in commento (art. 1 comma quinto, art. 9 comma secondo) prevede la presa in carico della famiglia, e la necessità di garantire attorno ad essa un nucleo di professionisti di diverse competenze (psicologi, assistenti sociali, counselor, educatori, assistenti spirituali, personale di accoglienza, volontariato). E “dovrà anche essere favorito l’accesso a tali servizi del nucleo familiare esteso, dei parenti e delle persone care” (art. 9 comma terzo).
Di rilievo anche la specificazione (art. 1 comma secondo) che nell’ambio del processo di cura vi è di un costante “processo comunicativo”, in cui hanno un ruolo il bambino, la famiglia e il personale sanitario: una interlocuzione continua e dialettica, dove lo scambio non è solo informativo, ma anche emozionale.

La relazione medico-paziente nell’ambito pediatrico si struttura quindi necessariamente a tre: il paziente-bambino, i genitori e il medico (art. 1 comma 2°). E in questa struttura comunicativa e informativa è importante considerare le interferenze che si possono creare tra le parole dei familiari, quelle del medico e l’atteggiamento del bambino.


Per questi motivi pur essendo i genitori gli interlocutori principali dell’équipe curante (cfr. art. 3 comma 2° legge 219/2017), è ormai un approdo largamente condiviso la necessità di comunicare direttamente con il paziente-bambino, che va sempre informato e coinvolto (cfr. art. 3 comma 1 legge 2019/2017), e - previo consenso dei genitori - anche in loro assenza.
La comunicazione avviene attraverso la parola, la gestualità, il disegno, la musica, gli scritti.
E’ proprio il bambino che ricevuta l’informazione dal medico senza la presenza dei genitori spiega ai genitori stessi che cosa gli è successo. L’obiettivo è di aprire la porta della comunicazione intra-familiare e quindi rendere meno angosciante e stressante il rispondere a loro domande o richieste ed evitare di incrementare quel “mistero” fonte di inganno oltre che di pessimismo. Negli ultimi anni (dal 2000 in poi) su sollecitazione degli stessi genitori questo modello di comunicazione è stato esteso anche ai fratelli, spesso “dimenticati” e confinati a ruoli marginali nell’ambito della famiglia: e le esperienze finora registrate testimoniano che questo “approccio dialogato” è sempre considerato il migliore. Bisogna però fare attenzione a non indurre nei bambini (malati e fratelli) un eccessivo senso di responsabilità o di angoscia e a non essere troppo invasivi […]. In conclusione, non esiste probabilmente un modo “ideale” per intraprendere un aperto dialogo con i bambini malati. La modalità presentata ha senza dubbio dimostrato una buona efficacia e conferma che comunicare nel modo più completo e più comprensibile per il bambino, qualunque sia la malattia cronica o acuta, è molto importante. La chiave del dialogo è una “buona comunicazione” e un “buon ascolto” indipendentemente dal mezzo strumentale a cui far riferimento” (dott.re Momcilo Jankovic, in Repubblica.it 23 gennaio 2017).
Il processo comunicativo implica la consapevolezza che il tempo di comunicazione è tempo di cura (cfr. art 1, comma 3 e art. 1, comma 8 legge n. 219/2017).
Di fronte al piccolo paziente morente ogni conflitto e ogni disaccordo va evitato, con la consapevolezza che il suo massimo livello di benessere determina anche il benessere della famiglia e dello stesso personale sanitario (art. 1, comma quarto), perché tutti devono trovare le risorse per accettare e accompagnare la fase terminale di una giovane vita.
Di qui la necessità di una formazione specifica degli operatori: se la comunicazione avviene di regola attraverso la parola, quando si dialoga con un bambino o di un bambino la gestualità, il disegno, la musica, gli scritti sono altrettanto importanti.
La maggior difficoltà nel comunicare una diagnosi o meglio un “progetto di cura” ad un bambino inguaribile non è tanto nel “cosa” dire, quindi, ma nel “come” dirlo.
Molti genitori sono in difficoltà quando devono parlare con i propri figli, soprattutto se piccoli, di malattie “gravi” o comunque a prognosi incerta o infausta, e questo rende imprescindibile un intervento qualificato e competente (e quindi convinto e convincente) dell’operatore sanitario.
Il fine specifico dell’alleanza terapeutica è creare una relazione di fiducia: una comunicazione efficace si fonda prevalentemente sugli atteggiamenti e sui gesti, a tal punto che “il come” (la relazione) predomina sul “che cosa” (il contenuto).
In altre parole l’interlocutore è più attirato dal modo di parlare dell’altro che dal contenuto del discorso, soprattutto se si trova in una condizione di fragilità.

 

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