La complessità del fine vita nelle esperienze della pratica clinica

Nell’ultimo anno il dibattito sulle tematiche di fine vita si è riacceso con forza, in seguito alle note vicende legate al pronunciamento della Corte Costituzionale riguardante la possibile rilevanza penale dell’aiuto al suicidio (caso Cappato). I mass-media hanno dato grande rilevanza a questa vicenda, affrontando l’argomento in più riprese e riportando diversi punti di vista.

I termini “eutanasia”, “limitazione dei trattamenti”, “suicidio assistito”, “accanimento terapeutico” sono stati abbondantemente citati e variamente definiti da giornalisti, opinionisti, giuristi, esponenti politici, talvolta in modo contraddittorio o non del tutto corretto.

Neppure l’entrata in vigore nell’anno precedente della legge 219/2017 ha suscitato così tanto interesse, nonostante abbia rappresentato un passaggio di grande rilevanza per il peso delle novità in essa contenute, fra cui per esempio l’introduzione delle “disposizioni anticipate di trattamento” (DAT), della figura del “fiduciario” e della “pianificazione anticipata delle cure”.

Per inciso, devo dire che al momento attuale non mi pare che i contenuti di questa legge siano ancora ben conosciuti dagli operatori sanitari, né tantomeno dall’opinione pubblica, per cui tale normativa è ancora di fatto in gran parte inapplicata. Resta perciò ancora molta strada da fare, soprattutto sul versante della formazione dei sanitari e dell’informazione ai cittadini.

Di fronte a tutto questo c’è un quesito che mi pongo spesso: quando un giornalista, un giurista, un cittadino o un politico parlano di questi argomenti, hanno una sufficiente conoscenza di quali siano le reali condizioni in cui si trovano i malati oggetto del dibattito? O ancora, quando un cittadino si accinge a scrivere le proprie DAT, sa effettivamente in cosa consistono i trattamenti che sta accettando o rifiutando?

Per questo motivo, a completamento delle tematiche affrontate in questa pubblicazione vorrei portare i lettori dove il cosiddetto “fine vita” avviene realmente, per dare un’idea delle situazioni umane vissute dai pazienti, dai familiari e dai curanti, e di quanto possano essere difficili le valutazioni e le decisioni in questi contesti.

Il reparto di Terapia Intensiva è uno dei teatri dove “eutanasia” e “limitazione dei trattamenti”, da una parte, e “accanimento terapeutico”, dall’altra, possono trovare ampia rappresentazione.

Presenterò quindi cinque diversi casi.

Primo caso

E’ noto che per disposizione di legge il paziente (e a maggior ragione i familiari, qualora il paziente non sia in grado di decidere per sé) non possono richiedere al medico l’effettuazione di trattamenti che non rispondano a criteri di appropriatezza e proporzionalità e che il medico è legittimato a rifiutarli.

Nella pratica clinica questo principio non è sempre di facile applicazione.

Un paziente di 70 anni viene ricoverato in Terapia Intensiva dopo l’effettuazione di un intervento chirurgico molto importante. Proveniva da un altro grande ospedale nel quale precedentemente erano stati eseguiti diversi interventi sempre per la stessa patologia, con scarsi risultati. Anche quest’ultimo tentativo non sembra aver dato benefici sostanziali perché le condizioni evolvono progressivamente in senso peggiorativo.

Il malato è tracheostomizzato, assistito dal ventilatore, in sedazione farmacologica, ha bisogno di farmaci per sostenere l’attività del cuore e per mantenere una sufficiente funzione dei reni. La situazione continua ulteriormente a peggiorare, viene iniziata la dialisi perché i reni non funzionano più, i dosaggi dei farmaci per sostenere il cuore vengono aumentati a livelli massimali, i polmoni cominciano a loro volta a presentare gravi alterazioni.

L’equipe curante, sentiti anche diversi consulenti, comincia a rendersi conto che i trattamenti in atto stanno dimostrando la loro inefficacia. In particolare, sono gli infermieri a sollecitare una presa d’atto da parte dei medici della gravità della situazione: se ne rendono conto perché lavando il paziente vedono formarsi piaghe cutanee sempre più estese.

La famiglia è composta da due figlie, alle quali vengono costantemente rese informazioni sull’ aggravamento progressivo del quadro clinico e vengono espressi i dubbi dei curanti sull’utilità di proseguire i trattamenti in corso, essendo questi pressoché inefficaci.

Le figlie si dichiarano assolutamente contrarie a qualsiasi tipo di limitazione di trattamento perché il padre, al manifestarsi della malattia, aveva detto loro che “per la sua salute qualsiasi cosa” e quindi si sentono investite del compito morale di difendere ad oltranza la sua volontà e la sua vita.  

Nonostante ripetuti tentativi di far comprendere la sostanziale differenza tra il fare “tutto il possibile” (applicare cioè tutte le terapie farmacologiche e meccaniche a disposizione della Terapia Intensiva, anche se prive di efficacia e potenzialmente fonte di maggiori sofferenze)  e fare “tutto ciò che può essere utile” (in questo caso ormai soltanto la sedazione e l’analgesia per evitare le sofferenze), l’opinione delle figlie non cambia e questo crea una situazione di stallo viste le posizioni opposte della famiglia e dei sanitari. Oltretutto, l’equipe curante comincia a manifestare una certa insofferenza nei confronti della posizione estrema assunta dal contesto familiare, cosa questa che peggiora ulteriormente i rapporti fra le parti.

Arrivati a questo punto due sono le strade: procedere verso una desistenza terapeutica anche contro il parere delle figlie, legittimata dalla progressiva inutilità e dalla sproporzione dei trattamenti in corso, oppure proseguire ancora per qualche tempo i trattamenti per non forzare la mano e aggravare la sofferenza psicologica delle figlie, lasciando loro ancora un po’ di tempo per accettare l’inevitabilità dell’evento morte.

Si decide per la seconda ipotesi: ci si prende cura del malato e della sua famiglia, dando il tempo ai suoi componenti (soprattutto quelli più fragili come a volte possono essere i figli in giovane età oppure i grandi anziani che stanno perdendo il compagno di una vita) di prepararsi all’evento morte, di entrare nell’ottica dell’accettazione di un qualcosa ormai inevitabile.

Secondo caso

Paziente di 40 anni, sposata con due figli adolescenti, affetta da una rara malattia a causa della quale si creano delle perforazioni intestinali che arrivano fino alla parete dell’addome (fistole entero-cutanee). Per questo motivo è stata operata più volte, ma la malattia ha continuato a recidivare.

Nell’ultimo anno ha vissuto sempre distesa a letto per evitare che, mettendosi in posizione eretta, i liquidi contenuti nel tubo digerente fuoriuscissero dalle numerose perforazioni ed è stata nutrita esclusivamente per via endovenosa.

Viene deciso un estremo tentativo di correzione chirurgica, che il chirurgo ha accettato di eseguire, pur con molte perplessità sui possibili benefici, per accondiscendere ad una esplicita richiesta della paziente, consapevole che la sua malattia non è guaribile, ma desiderosa di avere una migliore qualità di vita.

Al momento del colloquio con l’anestesista la paziente fa una precisa richiesta: chiede di non essere risvegliata nel caso in cui l’intervento non dovesse portare i risultati sperati in termini di qualità di vita (per esempio possibilità di mettersi in posizione eretta e di alimentarsi normalmente). Il medico, di fronte a questa volontà espressa dalla paziente in modo molto fermo, alla luce di una chiara consapevolezza riguardo alla propria situazione, si impegna nei limiti delle proprie possibilità a rispettare quanto richiesto, provvedendo a registrare il tutto in cartella clinica.

Nei primi giorni dopo l’intervento la paziente viene tenuta sotto sedazione profonda, intubata e ventilata artificialmente, in attesa della stabilizzazione delle condizioni cliniche generali. Poco tempo dopo cominciano a presentarsi lesioni cutanee addominali che danno progressivamente origine a numerose fistole enteriche. In seguito a questo si decide di non risvegliare la paziente, come da lei richiesto, tenendola sedata, connessa al ventilatore e nutrita artificialmente.

A questo punto, vista l’impossibilità di recuperare una condizione di vita considerata accettabile dalla paziente e di guarire una malattia che la porterà certamente a morte, si pone il problema di cosa fare: rispettare la sua richiesta di non essere risvegliata, continuando a supportarla dal punto di vista delle funzioni vitali, oppure decidere di interrompere i supporti vitali per non prolungare inutilmente un percorso di vita sostenuto artificialmente e senza speranze?

Tra le variabili da tenere in considerazione ai fini della decisione c’è anche la presenza di un contesto familiare (marito e due figli) che si trova in evidente stato di sofferenza per l’evoluzione clinica sfavorevole e non risolvibile, sofferenza aggravata non poco dall’impossibilità di comunicare con la paziente (cosa che sarebbe agevolmente possibile sospendendo la sedazione).

Da una parte è evidente che se la volontà espressa dalla paziente di non essere svegliata è motivata solo dal rifiuto della sofferenza fisica e psicologica (e non dalla volontà di porre fine alla propria vita), la scelta corretta è quella di continuare la sedazione e i supporti vitali.

Dall’altra ci si interroga sulla possibilità che tale richiesta sia stata espressione di una volontà di porre fine alla propria vita, nella consapevolezza che comunque la malattia non è guaribile, e quindi ci si chiede se non sia più corretto interrompere i supporti vitali.

La decisione, senza dubbio molto sofferta e frutto di lunghe riflessioni che hanno coinvolto tutto lo staff medico-infermieristico del reparto e i familiari, è quella di proseguire i supporti vitali, interpretando la richiesta della paziente come un rifiuto delle sofferenze e non come un rifiuto dei supporti vitali per porre fine anzitempo alla sua vita, scelta questa che, se messa in pratica dal medico in assenza di una volontà chiaramente espressa dalla paziente, avrebbe avuto un significato eutanasico.  

Quando poi, in seguito a progressione di malattia, le condizioni cliniche si sono aggravate al punto da rendere pressochè inefficaci le terapie di supporto vitale, si procede a sospenderle per non prolungare inutilmente il processo del morire della paziente ed evitare di scivolare nell’accanimento terapeutico. Una sospensione che si configura come una limitazione di trattamento (altrimenti detta “desistenza terapeutica”), del tutto legittima sul piano etico, deontologico e normativo.

Una decisione che in una prima fase del percorso avrebbe avuto un significato eutanasico, nella fase successiva è diventata una scelta lecita, ed eticamente e deontologicamente corretta.  

In questo caso il tempo trascorso in sedazione palliativa profonda e continua accompagnata dall’erogazione dei supporti vitali non è stata espressione di eccesso (accanimento) terapeutico: non è stato un tempo di cura (non possibile), ma un tempo rispettoso della volontà della paziente, e un tempo utile per l’equipe dei sanitari (medici e infermieri) e per la famiglia.

Per i primi, perché ha permesso di raggiungere con la giusta gradualità e in modo condiviso la consapevolezza che era arrivato il momento di fermarsi. Infatti, una scelta di desistenza terapeutica non adeguatamente preparata e condivisa può avere effetti laceranti nell’ambito di un’equipe composta da professionisti con esperienze personali e riferimenti valoriali molto diversi.

Per la famiglia, perché ha potuto constatare che la volontà della paziente è stata attentamente considerata e rispettata (pur essendo questo un motivo di sofferenza importante per il marito e i figli), senza però che questo abbia portato a sconfinare nell’accanimento.

Terzo caso

Nella mia personale esperienza le situazioni nelle quali viene chiesto da parte dei familiari o da operatori sanitari di procedere a oltranza con i trattamenti sono sempre meno frequenti.

Negli ultimi anni sono invece aumentati i casi in cui avviene l’opposto: c’è una maggiore tendenza da parte dei pazienti o delle famiglie a presentarsi al primo contatto dichiarando “siamo contrari all’accanimento” e si comincia a registrare qualche caso di richiesta esplicita di sospensione dei trattamenti intensivi, quando questi sono ritenuti ancora efficaci e proporzionati da parte dell’equipe curante.

In assenza di espressioni di volontà anticipate (DAT) la gestione di queste situazioni non è semplice.

Paziente di 85 anni, in buona salute, che in seguito ad una grave emorragia cerebrale viene sottoposto ad intervento neurochirurgico d’urgenza e, dopo alcuni giorni, trasferito nel reparto di Terapia Intensiva più vicino alla sua residenza.

In una prima fase si presenta in stato di coma profondo, per cui viene supportato dal punto di vista ventilatorio, cardiocircolatorio e nutrizionale. Dopo tre settimane si apprezzano iniziali segni di modificazione dello stato neurologico: il paziente sta passando dallo stato di coma allo stato vegetativo, cioè apre e chiude gli occhi spontaneamente, ma non presenta nessun altro tipo di movimento spontaneo o di reazione motoria allo stimolo doloroso, né dimostra alcun segno di connessione o reazione all’ambiente circostante.

In conseguenza di questo, il tubo endotracheale viene sostituito con una cannula tracheostomica e si procede al posizionamento di una sonda che attraverso la parete addominale arriva direttamente nello stomaco (la cosidetta “PEG”) per permettere la nutrizione non più in vena, ma attraverso il tubo digerente.

Alla moglie e ai figli viene spiegato che in queste situazioni è pressochè impossibile esprimersi in termini prognostici riguardo alla possibilità di recupero delle funzioni cognitive e motorie prima che siano trascorsi almeno 6-12 mesi, ma che, in considerazione dell’età e del tipo di lesioni cerebrali, le possibilità di un recupero dell’autosufficienza completa sono molto scarse.

L’evoluzione più probabile è verso la disabilità residua medio-grave.

La moglie, di fronte a questi dati, chiede che le terapie di supporto vengano sospese ritenendo che la qualità di vita residua del marito non giustifichi il suo mantenimento in vita: se dovesse avere coscienza della sua condizione di grave disabilità e non autosufficienza, ne avrebbe una sofferenza insopportabile, essendo una persona vitale, che mal tollerava le limitazioni delle sue capacità fisiche normalmente dovute all’età.

Non è però in grado di riferire qualche espressione di volontà manifestata precedentemente dal marito.

Viene spiegato che, a fronte dell’incertezza sulla prognosi, non potendo cioè prevedere il livello di recupero neurologico al quale potrà arrivare il paziente, non è giustificato sospendere supporti vitali che in questa fase si dimostrano adeguati e necessari a mantenere in equilibrio le funzioni fisiologiche, favorendo quindi il miglior livello possibile di recupero neurologico. Procedere a tale interruzione significherebbe causare intenzionalmente la morte del paziente, mentre la prosecuzione non si configura come eccesso terapeutico, almeno non in questa fase.

La moglie resta nelle sue posizioni, non condividendo il giudizio dei curanti, e manifesta notevole sofferenza psicologica per questo.

I curanti, da parte loro, cercano di confortarla assicurandole che non è loro intenzione accanirsi nei confronti del marito e che, nel caso in cui i supporti vitali dovessero dimostrarsi non più efficaci a raggiungere gli obiettivi, saranno sospesi. Viene comunque garantita l’attenzione a evitare qualsiasi sofferenza fisica.

La situazione è oggetto di discussione all’interno dell’equipe medico-infermieristica, dove vengono a confrontarsi le posizioni a difesa del bene “vita” con quelle che ritengono prioritario il bene “dignità” della vita.

Si decide comunque di mantenere i trattamenti in corso: la situazione clinica verrà rivalutata giorno per giorno e, in base all’evoluzione delle condizioni, si prenderanno le decisioni più opportune, in un senso o nell’altro.

Viene inoltre deciso di mettere a disposizione della moglie un supporto psicologico da parte di un esperto.

Nel corso delle settimane il quadro neurologico presenta lievissime modificazioni: il paziente accenna a presentare qualche segno di reattività all’ambiente circostante e riprende a respirare autonomamente, sempre attraverso la cannula tracheostomica, per cui viene staccato dal ventilatore. Anche la funzione cardiocircolatoria si è normalizzata e non richiede terapie particolari. La nutrizione avviene per via enterale attraverso la sonda gastrica.

A questo punto, non essendo più necessarie terapie di supporto vitale, il ricovero in Terapia Intensiva non è più necessario e il paziente viene trasferito in reparto lungodegenza.

Quarto caso

Chiamato per un’emergenza, l’equipaggio dell’ambulanza entra in casa per soccorrere una persona priva di coscienza a causa di un arresto cardiaco. Non c’è il tempo per raccogliere informazioni sulla storia clinica pregressa, si procede con le manovre di rianimazione che, nell’arco di alcuni minuti, ottengono la ripresa dell’attività cardiaca. La paziente, intubata e sedata, viene trasportata in ospedale e ricoverata in Terapia Intensiva.

Poco dopo arrivano i familiari con la documentazione sanitaria della paziente, dalla quale si apprende che si tratta di una persona di 65 anni affetta da una forma tumorale maligna plurimetastatizzata per la quale sono stati effettuati due interventi chirurgici e ripetuti cicli di chemioterapia.

Da questi dati si pone subito il problema se proseguire o meno i trattamenti intensivi vista la grave patologia della quale la paziente è affetta.

Non è però del tutto chiara la prognosi oncologica, che i familiari non sanno riferire con precisione. Si decide pertanto di proseguire le terapie di supporto e gli approfondimenti cardiologici e neurologici del caso, in attesa di avere da parte oncologica una valutazione prognostica in termini di aspettativa e di qualità di vita residua della paziente.

L’oncologo che ha seguito la paziente afferma che si tratta di un caso ormai non più suscettibile di miglioramenti per il quale si era già deciso di non fare ulteriori cicli di chemioterapia e che probabilmente l’episodio di arresto cardiaco è dovuto agli effetti cardiotossici delle terapie oncologiche praticate. A suo parere l’aspettativa di vita è di qualche settimana (non oltre 1 o 2 mesi).

Dai familiari si cerca di raccogliere informazioni sulle condizioni di vita della paziente nell’ultimo periodo e su eventuali espressioni di volontà.

Viene riferito che aveva un livello di autonomia molto limitato, non usciva più di casa, passava ormai molto tempo della giornata a letto e quando si alzava riusciva solo a spostarsi con molta difficoltà da una stanza all’altra. Il controllo del dolore non era ottimale, nonostante dosaggi elevati di farmaci analgesici che le causavano effetti collaterali mal tollerati, come la costipazione, il prurito e la nausea e un certo rallentamento cognitivo.

Della sua condizione clinica non aveva mai parlato, né aveva parlato di quello che avrebbe voluto per sé, forse anche perché era stata tenuta all’oscuro sulla vera natura della sua malattia.

A questo punto sorgono gli interrogativi su quali decisioni adottare: accettare l’inevitabile evoluzione sfavorevole della malattia tumorale, continuando solo la sedazione e l’analgesia e sospendendo tutti gli altri supporti vitali (fra cui la respirazione artificiale) oppure proseguire i trattamenti intensivi nel tentativo di recuperare un livello minimo di autosufficienza, tale da permettere perlomeno la dimissione dalla Terapia Intensiva.

E’ chiaro che la prima opzione comporta l’evoluzione verso il decesso nell’arco di alcune ore o pochi giorni (limite alle cure?), mentre nel secondo caso la vita della paziente può proseguire per diverse settimane, con disturbi e limitazioni che, nel migliore dei casi, non saranno più leggere di prima (accanimento?).

I cinque figli (la paziente è vedova), sono ormai abbastanza rassegnati alla perdita della madre, che sapevano già da tempo inevitabile, e sottolineano le notevoli sofferenze che ha affrontato nell’ultimo periodo.

L’equipe curante è compatta e convinta nel ritenere che per il bene della paziente si debbano evitare ulteriori sofferenze e che la cosa giusta sia mantenerla sedata, abolire il dolore, e non prolungare artificialmente la sua vita. Si decide pertanto di desistere dai trattamenti di supporto vitale, decisione che i familiari, già preparati, accolgono con serenità, comprendendone il significato.

La paziente decede dopo due giorni.

Se l’oncologo avesse invece riferito che erano ancora possibili altri cicli di terapia antitumorale e che, nel caso questi avessero dato una buona risposta, la sopravvivenza poteva arrivare anche a 6 mesi, la decisione presa sarebbe stata ugualmente lecita e deontologicamente ed eticamente corretta?

In questo caso, la stessa decisione di interrompere i supporti vitali avrebbe potuto a mio avviso essere qualificata come un atto eutanasico.

Quinto caso

Viene chiesta una valutazione a fini operatori per una paziente di 38 anni, sposata e madre di due figli, che si trova in stato vegetativo da 8 anni in seguito ad un coma diabetico.

Il motivo è la comparsa di una massa addominale che si sospetta di origine tumorale, associata a segni di infezione grave che non è stato possibile risolvere con la terapia antibiotica e che mette in pericolo di vita la paziente. L’unico modo per fare una diagnosi precisa e poter impostare una terapia efficace a salvare la vita della paziente è un intervento chirurgico addominale.

Lo stato vegetativo è caratterizzato dal fatto che il paziente ha cicli sonno-veglia, cioè alterna periodi a occhi aperti ad altri in cui sembra dormire. Non mostra segni di connessione con l’ambiente circostante: nessuna reazione finalizzata a stimoli visivi o acustici, nessuna attività motoria spontanea degli arti. L’attività respiratoria è autonoma, attraverso una cannula tracheostomica, senza necessità di alcun supporto artificiale. Anche le funzioni cardiocircolatoria e renale sono autonome. La nutrizione avviene attraverso una sonda gastrica.

In questa condizione una persona può sopravvivere anche più di vent’anni. La causa più frequente di morte è l’infezione.

Ciò che la scienza medica non può dimostrare e neppure escludere è se questi pazienti abbiano percezione dell’ambiente o coscienza della propria situazione, cioè abbiano ancora un residuo di cognitività.

E’ proprio sulla base di questa incertezza che le persone in stato vegetativo vengono assistite e curate per decenni, anche se i recuperi di coscienza (peraltro del tutto parziali) segnalati dopo 5 anni in queste condizioni sono estremamente rari e del tutto aneddotici, in quanto non ben descritti e circostanziati dal punto di vista medico.

La stessa motivazione che spinge a proseguire per molti anni l’assistenza e la cura di questi pazienti, senza che questa sia considerata una forma di accanimento terapeutico, giustifica un’attenta valutazione, e non un’esclusione a priori, di eventuali trattamenti diagnostico-terapeutici invasivi, in termini di appropriatezza e proporzionalità.

Poiché la paziente è in pericolo di vita e non è possibile escludere che provi dolore fisico per la sua patologia, si decide di procedere con le indagini e con l’intervento chirurgico, ritenendo che l’astensione possa configurarsi come un atto eutanasico.

In conclusione, nella pratica clinica soprattutto in Terapia Intensiva vi sono molti aspetti che possono qualificare l’intervento medico e assumere una particolare rilevanza: il tempo può essere uno strumento per arrivare con la necessaria gradualità ad individuare ciò che può essere più giusto fare; la rivalutazione  necessaria giorno per giorno delle situazioni; l’importanza della condivisione dei percorsi fra i diversi soggetti coinvolti (paziente, familiari, equipe curante, consulenti) che spesso compartecipano delle sofferenze; e soprattutto i significati diversi (a volte diametralmente opposti) che la stessa scelta può assumere sul piano normativo, deontologico ed etico a seconda dei contesti e la difficoltà per l’équipe di cogliere di volta in volta il confine sfumato dell’azione di cura.


Dott. Giorgio Zanardo
Medico Anestesista Rianimatore Direttore di U.O. Anestesia e Rianimazione   
Ospedale di Castelfranco Veneto – Istituto Oncologico Veneto

 

 

Ok
Questo website usa solamente cookies tecnici per il suo funzionamento. Maggiori dettagli