Convivenza more uxorio e impresa familiare: l’interpretazione evolutiva dell art. 230 bis c.c.

di avv. Gabriella Dal Molin

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza interlocutoria n. 2121 del 24 gennaio 2023, ha rimesso al Primo Presidente, per l'eventuale rinvio alle Sezioni Unite, la questione se l'art. 230 bis, terzo comma c.c., "interpretato evolutivamente", possa essere applicato anche al convivente more uxorio quando la convivenza sia caratterizzata da un accertato grado di stabilità.

Tizia, convivente di fatto del de cuius, assumendo di aver collaborato, per tutta la durata del rapporto sentimentale sino alla morte del compagno, nell'impresa familiare di quest'ultimo, conveniva in giudizio i figli, unici eredi del titolare, chiedendone la condanna alla liquidazione della quota spettantele per il lavoro prestato in seno all'impresa, che individuava nella misura del "...50% del valore dei beni acquistati e degli utili conseguiti, compresi gli incrementi patrimoniali avutisi nel corso del tempo...".

Il Tribunale di Fermo rigettava la domanda, decisione confermata dalla Corte d'Appello di Ancora, che peraltro disponeva la compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per Cassazione da parte della convivente ed in particolare, con il secondo motivo di impugnazione, Tizia lamentava che "...Alla luce delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza nonché nell'ambito di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 230 bis c.c. in relazione all'art. 2 della Costituzione ... ben avrebbe potuto e dovuto, il giudice territoriale, affermare, anche senza ricorrere all'art. 230 ter c.c., l'applicabilità di tale norma alla convivenza di fatto come nel caso trattato, con tutte le conseguenze previste nel caso di cessazione...".

Tale censura, a parere degli Ermellini, ha posto una questione "meritevole di attenzione" ai fini del decidere: se anche il convivente di fatto, seppur non espressamente indicato nella norma, possa essere considerato come familiare per gli effetti dell'art. 230 bis c.c..

La Cassazione, nell'iter argomentativo, ha richiamato la pregressa giurisprudenza di legittimità, peraltro datata, che ha sancito tassativamente l'inapplicabilità della disciplina dell'impresa familiare, modulata sul presupposto dell'esistenza di una famiglia legittima, al convivente di fatto, considerando l'art. 230 bis c.c. norma eccezionale, come tale insuscettibile di applicazione analogica (Cass. Civ. nn. 4204/1994, 22405/2004). Trattasi di una interpretazione strettamente aderente alla lettera dell'art. 230 bis c.c., ritenuta costituzionalmente legittima non comportando alcuna violazione degli art. 2 e 3 della Costituzione.

Tuttavia la Corte Costituzionale ha avuto modo di sottolineare

“...che l'introduzione dell'istituto dell'impresa familiare risponde alla meritoria finalità di dare tutela al lavoro comunque prestato negli aggregati familiari...” (Corte Cost. nn. 476/1987, 170/1994, 485/1992),

con ciò ampliando l'ambito applicativo soggettivo della norma. Inoltre, con indirizzo costante, ha affermato che l'art. 2 della Costituzione debba riferirsi anche “...alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità...” (Corte Cost. n. 237/1986) attribuendo rilevanza giuridica al rapporto di convivenza more uxorio.

Osserva ancora la Cassazione che

“...non si tratta di porre sullo stesso piano coniugio e convivenza more uxorio ma di riconoscere un particolare diritto alla convivente more uxorio e ripristinare ragionevolezza all'interno di un istituto che non può considerarsi eccezionale quanto piuttosto avente una funzione suplettiva, essendo diretto ad apprestare una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari...” .

In un contesto sociale che vede il costante incremento delle convivenze di fatto, considerati sia gli interventi della Corte Costituzionale e il modificato panorama legislativo dopo l'introduzione della legge n. 76/2016, “...l'esclusione del convivente more uxorio che per lungo tempo abbia lavorato nell'impresa familiare dell'altro convivente pare porsi in contrasto non solo con gli art. 2 e 3 Cost. (come interpretati in materia dalla Corte Costituzionale) ma soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE …

pertanto, nel rispetto della ratio legis chiaramente espressa, l'interprete è chiamato a procedere ad una interpretazione evolutiva della norma da applicare eventualmente anche tenendo conto dei sopravvenuti e più recenti interventi legislativi non direttamente applicabili nella fattispecie esaminata...” (ex multis Cass. SU n. 8486/2011).

In tale contesto

“...l'esclusione del solo – o della sola … convivente more uxorio dalla applicazione dell'art. 230 bis c.c. appare non corrispondente alla “inclusiva” ratio dell'istituto rapportata alle mutate condizioni di vita, nel suddetto ambito materiale...”.

Per questi motivi il Collegio della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha ritenuto di dover rimettere gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite Civili, per la soluzione della seguente questione di particolare importanza:

“Se l'art. 230 bis, comma terzo, c.c. possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione dell'evoluzione dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli art. 2,3,4 e 35 Cost. sia all'art. 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità”.

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