Ruolo e attività dei centri antiviolenza: un punto di riferimento indispensabile per la vittima e il suo difensore.

di avv. Mariangela Semenzato

L’esperienza dei Centri Antiviolenza, in Italia, ha subito una forte evoluzione: oggi sono strutture di una certa complessità, che rivestono un ruolo centrale nel processo di emancipazione delle donne vittime di violenza domestica. Anche se può apparire superfluo, va precisato sin d’ora che i CAV si rivolgono esclusivamente all’utenza femminile e non si occupano di uomini che, eventualmente, possano essere vittime di violenza domestica.

Le prime esperienze di assistenza alle vittime risalgono agli anni ’70, quando la diffusione del movimento femminista determina il sorgere di gruppi di autocoscienza femminile, la cui discussione interna porta a consolidare la consapevolezza del fenomeno della violenza sulle donne e della violenza domestica.

Come risposta al bisogno di sostegno delle vittime – in costanza di un quadro normativo assolutamente inadeguato – sorgono dei centralini di ascolto e poi i primi centri antiviolenza, con circa un decennio di ritardo rispetto alle corrispondenti esperienze nord- europee, canadesi e statunitensi.

Negli anni ’90, centri antiviolenza e case rifugio iniziano a diffondersi con maggior rapidità, anche se il numero rimane limitato (circa una settantina in tutto il territorio nazionale), ma è molto vivo il confronto della rete che i centri, autonomamente, vanno costituendo a livello nazionale.

Parallelamente, assistiamo all’evoluzione del quadro giuridico, internazionale e nazionale, in materia di discriminazione delle donne e violenza di genere.

È del 1979 la Convenzione delle Nazioni Unite sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, di cui ricordiamo gli atti fondamentali: il Protocollo opzionale (1999), la Raccomandazione generale n° 19 del CEDAW sulla violenza contro le donne, aggiornata poi dalla Raccomandazione generale n°35 del 26 luglio 2017, la quale  fornisce un inquadramento più chiaro degli obblighi a carico degli Stati membri nonché delle aree su cui intervenire per contrastare la violenza contro le donne, riconoscendo inoltre il divieto di violenza di genere come norma consuetudinaria del diritto internazionale e sottolineando la necessità di cambiare le norme sociali che favoriscono la violenza. La Raccomandazione, inoltre, amplia la definizione di violenza di genere, includendovi quelle forme che riguardano il diritto alla salute riproduttiva nonché quelle che si verificano online e negli altri ambienti digitali creati dalle nuove tecnologie.

È invece del 2011 la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (cosiddetta Convenzione di Istanbul), ratificata in Italia dalla L. n. 77/2013.  Di poco successivo il decreto-legge 14 agosto 2013 n. 93, che all’art.  5bis prevede che il Ministro Delegato per le Pari Opportunità, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, provveda annualmente a ripartire tra le Regioni le risorse del “Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità”, mentre, tra le finalità elencate all’art. 5, indica quella di “potenziare le forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli attraverso modalità omogenee di rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza”.

Dal 2017, l’intervento dello Stato italiano in termini di finanziamenti ai Centri antiviolenza si rafforza notevolmente, destinando risorse progressivamente crescenti alle Regioni, che con diversi meccanismi (dipendenti dal proprio modello di governance), gestiscono l’assegnazione dei fondi ai Centi Antiviolenza e alle Case Rifugio presenti sul territorio, consentendo continuità e potenziamento alle strutture esistenti oltre che l’istituzione di nuovi luoghi di assistenza.

La continuità del confronto con le strutture e con gli Enti Locali ha consentito di individuare, monitorare e, in alcuni casi, risolvere,  svariate criticità, inerenti non solo i meccanismi di finanziamento (sicuramente da efficientare per assicurare il funzionamento ottimale dei centri), ma anche la preparazione e  specializzazione dei soggetti gestori delle strutture stesse, evidenziando la necessità di introdurre un sistema di  verifica delle competenze, soprattutto in relazione ai soggetti di più recente istituzione.

Si tratta di luoghi gestiti da personale pressoché esclusivamente femminile, rivolti alle donne per offrire un luogo dove, prima di tutto, possano vedersi riconosciuti credibilità e sostegno, in primis psicologico, per comprendere ed affrontare – sulla base di decisioni completamente libere – il proprio vissuto di violenza.

I centri antiviolenza, attualmente, giocano un ruolo essenziale nella strategia nazionale di prevenzione e protezione dalla violenza di genere e domestica.

In Veneto, in base alla Legge regionale 23 aprile 2013, n. 5, ogni anno viene effettuata e pubblicata una rilevazione di tutte le strutture presenti sul territorio regionale: centri antiviolenza, case rifugio di tipo A (ad ubicazione segreta) e case rifugio di tipo B (ad ubicazione non necessariamente segreta).

Tali rilevazioni periodiche contengono anche dati molto importanti per comprendere il fenomeno, ad esempio: il numero di contatti annuali distinti in base a zone, fasce d’età, nazionalità, etc., il numero di abbandoni del percorso di uscita dalla violenza, il numero di denunce penali rispetto ai contatti e moltissime altre informazioni.

Alla pagina web Rilevazione delle strutture regionali - Regione del Veneto sono pubblicati gli elenchi delle strutture, suddivise per province, sulla base dei dati del 2021. Attualmente, i centri antiviolenza (sono pubblicati i recapiti per eventuali contatti) risultano essere 26 in tutto il Veneto.

L’ultimo report di rilevazione, invece, è quello pubblicato nel 2021 (scaricabile dallo stesso link) sulla base dei dati del 2020, dando conto, per quanto possibile nell’interpretazione dei dati, anche dello scostamento attribuibile alla pandemia.

Il centro antiviolenza svolge un ruolo primario nel contatto con le donne vittime di violenza.

Va precisato che, di norma, si rivolge a donne maggiorenni, mentre eventuale utenza di età minore viene indirizzata ai servizi presso i consultori dedicati ai minorenni, dove la gestione della casistica e l’operatività sono affatto diverse.

All’interno del Centro, in base ai principi della Convenzione di Istanbul, il contatto con le donne è basato sulla «metodologia di accoglienza basata sulla relazione tra donne» (art. 1, comma 2 e art. 8, comma 2), mentre, in base all’accordo Stato- Regioni del 2014, il percorso di protezione e sostegno deve essere personalizzato, ovvero «costruito insieme alla donna e formulato nel rispetto delle sue decisioni e dei suoi tempi».

Le attività sono gratuite, requisito che ha importanza fondamentale, dal momento che gran parte dell’utenza non ha un’occupazione o ha comunque un reddito insufficiente per sostenere i costi di una consulenza psicologica, legale, etc.

La prima fase del contatto consiste in quella che viene definita “accoglienza”, a cura di due operatrici specializzate che hanno il delicatissimo compito di effettuare il primo colloquio e di fornire alla donna un contesto di sicurezza e di fiducia che le consenta di aprirsi e narrare il proprio vissuto.

La figura dell’operatrice è di fondamentale importanza, e tale rimane per tutto il percorso di affrancamento dalla violenza, durante il quale la donna (salve eccezioni o passi dovuti ad esigenze operative) viene assistita sempre dalle stesse persone, per garantire il rapporto di fiducia e che nulla, del suo vissuto, si perda da un passaggio all’altro. Quando la donna viene trasferita in una casa-rifugio, di norma vi è anche un riferimento interno alla struttura ospite.

Il primo contatto con il CAV può avvenire in circostanze diverse.

In molti casi, si verifica su diretta attivazione dell’interessata, per iniziativa propria o su consiglio di un conoscente, o su consiglio del legale.

In altri casi, su avvio delle Forze dell’Ordine, alle quali, spesso, le donne si rivolgono per ricevere informazioni preliminari, senza iniziale volontà di proporre querela. Sia in ossequio all’obbligo di legge (di informare le presunte vittime sulle strutture disponibili), sia al fine di evitare di dar immediato seguito alla procedibilità d’ufficio, le FF.OO. forniscono informazioni sui centri di zona ai quali rivolgersi.

Quasi sempre, le vittime di violenza non conoscono/comprendono l’obbligo di procedere d’ufficio per maltrattamenti e, quando chiedono quelle che, per loro, sono “mere informazioni” (mentre per le FF.OO. sono vere e proprie notizie di reato), si trovano soltanto all’inizio di un possibile percorso di consapevolezza e non si sentono pronte ad assumere l’impegno – soprattutto psicologico – di un possibile procedimento penale.  

In altri casi ancora, il contatto con il Centro può essere avviato direttamente dagli Assistenti Sociali o dal Pronto Soccorso, nell’ambito di protocolli che prevedano questo coordinamento d’interventi. Centrale, anche in questo caso, resta il consenso della donna, quale primo pilastro di consapevolezza di un fatto grave che la riguarda.

La fase dell’accoglienza ha rilievo essenziale: per molte delle donne che si rivolgono ai centri, si tratta della prima vera occasione di condivisione dell’esperienza della violenza ed è quindi essenziale, per l’inizio di un possibile percorso, fornire loro un contesto che consenta di affidarsi.  

Molte persone giungono evidentemente confuse e poco consapevoli, e si rivolgono al Centro per comprendere se stiano effettivamente vivendo una relazione maltrattante, pericolosa, e riceverne la conferma; a volte questa conferma le disorienta rispetto alla visione della vita e del futuro, soprattutto se sono madri.

La prima e fondamentale attività svolta dal Centro Antiviolenza è quella di sostegno psicologico: il rapporto con l’operatrice presuppone che la donna sia accolta in assenza di qualsivoglia giudizio o colpevolizzazione, elementi che impediscono di confidarsi e possono determinare l’interruzione del percorso e il permanere nella condizione di violenza.

All’operatrice (di solito, una psicologa) è affidata la prima raccolta dei dati e l’effettuazione – non sempre possibile al primo colloquio - della valutazione di rischio (solitamente per mezzo di modelli  come il S.A.R.A. ma non solo), fondamentale per stabilire se vi siano elementi di pericolo per l’incolumità tali da consigliare interventi di protezione o un’iniziativa di carattere giudiziario, come una querela con richiesta di misure cautelari o un ricorso per ottenere un ordine di protezione. Questa seconda valutazione viene fatta in collaborazione con gli avvocati del CAV, ai quali le operatrici possono sempre far riferimento per discutere dei casi in corso di affidamento.

Per inciso, nel sistema attuale (che presenta ancora molte lacune dal punto di vista delle procedure giudiziarie) la valutazione di rischio effettuata dal CAV è spesso l’unica, nonostante la Convenzione di Istanbul ne preveda espressamente la reiterazione da parte dei vari soggetti istituzionali coinvolti, al mutamento di fase di ciascuna procedura.

Come sopra detto, per ogni donna il progetto viene personalizzato sulla base della condizione e delle esigenze individuali.

Il centro antiviolenza, a tal fine, è in grado di sfruttare diverse sinergie, anche grazie al fatto di operare all’interno di protocolli che, per quanto perfettibili, rappresentano un link molto importante con altri soggetti istituzionali che, in coordinamento, possono intervenire abbastanza rapidamente a tutela della vittima.

Un esempio concreto di intervento complesso è quello a tutela di donne di nazionalità straniera, che richiede quasi sempre l’impiego di mediatrici culturali, non semplicemente come interpreti bensì come veri e propri tramiti di elementi culturali o tradizionali che, se non correttamente conosciuti ed interpretati, possono avere effetti invalidanti o depotenzianti del percorso di uscita dalla violenza. Se per il CAV si tratta di interventi relativamente semplici da realizzare con personale esperto e di fiducia, un legale avrebbe tempi e costi di reperimento e organizzazione decisamente superiori, con esiti forse incerti.

L’assistenza psicologica si snoda in un percorso articolato, che può accompagnare la vittima per molto tempo, atteso che il progetto è finalizzato all’emancipazione e, per ciascuna persona, può avere durata e complessità diversa. Alcune donne vengono affiancate per anni e sostenute anche durante le iniziative giudiziarie penali o per l’affidamento dei figli, etc.

Nella maggior parte dei casi, la donna viene aiutata a compilare una specie di diario, cioè un resoconto possibilmente ordinato della relazione e del vissuto di violenza, comprensivo degli episodi salienti che la stessa ricorda. Si tratta di un lavoro lungo e di importanza centrale nella ricostruzione della vicenda, che comporta una presa di coscienza molto dolorosa, per alcune quasi insostenibile, a causa del senso di colpa che provano per avere accettato e subito determinati comportamenti per periodi molto lunghi. Pertanto, l’affiancamento di una psicologa è quanto mai necessario.

È superfluo dire che, per il difensore, l’ausilio del personale di un CAV in questa fase è molto prezioso, perché raccogliere nel dettaglio la testimonianza della vittima – con la precisione necessaria ad estendere, ad esempio, una querela con richiesta di misure cautelari – può richiedere molto tempo e provocare nell’assistita una crisi emotiva che non tutti sono in grado di gestire.

Nell’ambito del sostegno e della valutazione di pericolosità, il Centro può proporre alla donna l’ospitalità in una casa rifugio (se madre, con i figli). Di norma, ciò avviene quando si evidenzia un rischio elevato per l’incolumità della donna e dei figli, in fattispecie con violenza alla persona/violenza assistita. In molti casi, l’ospitalità avviene in una struttura ad indirizzo secretato. (In tal caso, al legale spetta di vigilare che, nel fascicolo penale o civile non transitino relazioni di notifica che rivelino l’ubicazione della struttura, cosa che a volte, per errore, purtroppo succede).

Quando viene attivata la messa in protezione, possono presentarsi delle criticità, relativamente al fatto che i minori ospitati con le madri potrebbero dover sospendere per un periodo la frequenza scolastica e di altre attività (sport, catechismo, etc.) e, ovviamente, i contatti con il padre diversi da quelli telefonici (che vengono sempre mantenuti). Il coordinamento del CAV con un difensore esperto della materia può essere fondamentale per superare questi primi ostacoli.

Il centro antiviolenza interviene anche su altri fronti molto importanti, cioè la consulenza legale e il sostegno al lavoro e all’autonomia economica.

La consulenza legale, sia in materia civile che penale, ha carattere puramente informativo e preliminare, anche se spesso nell’esame dei casi si rende necessario entrare molto nei dettagli.

Questa parte dell’attività viene svolta in team da una delle operatrici che affiancano la donna e da un avvocato interno al centro, a volte con l’ausilio della mediatrice culturale. Gli avvocati, acquisiti i dati necessari, possono suggerire dei percorsi di tutela nelle materie di competenza, civile e penale.

Forniscono inoltre, contestualmente, tutte le informazioni necessarie ad accedere, se ve ne siano i presupposti, al patrocinio a spese dello Stato, spiegando come individuare un difensore a ciò abilitato, mediante gli albi online o l’accesso diretto alle sedi dei Consigli dell’Ordine di riferimento.

Quasi sempre, i legali del Centro sono disponibili al confronto con i colleghi designati dalle vittime, e questa collaborazione può risultare molto proficua, soprattutto per gli avvocati che non abbiano precedente esperienza di casi di violenza domestica.

Per le donne, infine, è di grande rilevanza anche il sostegno all’autonomia economica, che può consistere nel supporto alla richiesta di contributi economici pubblici oppure nell’avviamento a percorsi di formazione professionale, o nell’aiuto concreto al reperimento di un’occupazione. Solitamente, i progetti (concordati con le donne in ogni aspetto) comprendono anche l’aspetto lavorativo, con una capacità trasformativa della vita delle vittime che, a pochi mesi di distanza, recuperano forza, autonomia, capacità di autodeterminazione e di sostegno della prole.

Per quanto il sistema sia sempre perfettibile, i centri antiviolenza svolgono un ruolo oggi irrinunciabile a sostegno e a difesa delle vittime di violenza, coordinandosi in modo costante con tutti i soggetti istituzionali interessati dai protocolli territoriali in materia, ed intervenendo in modo attivo e continuo nelle sedi di coordinamento.

Nell’assistenza legale di una possibile vittima di violenza, ove possibile, sarebbe sempre opportuno far affiancare la donna da un CAV, a meno che la stessa non abbia i mezzi economici per assicurarsi in proprio un’assistenza psicologica.

Il sostegno del CAV è di enorme beneficio alla vittima, che percepisce di poter contare su un sistema organizzato che la ritiene credibile e la assiste nell’immediato sotto tanti punti di vista. Diversamente da quanto può verificarsi nel procedimento penale o civile, nel quale la vittima non solo è parte processuale con posizione paritaria rispetto a quella dell’autore di violenza ma, spesso, subisce quella che si definisce “vittimizzazione secondaria”, venendo messa in discussione o, a volte, addirittura colpevolizzata.

Il sostegno del centro antiviolenza, di riflesso, è molto utile anche alla difesa, perché il legale altrimenti si troverebbe a gestire da solo le numerose richieste (moltissime, come noto, di carattere non giuridico) che le vittime di questi reati presentano, soprattutto nelle prime fasi dell’emergenza.

La vittima supportata dal Centro Antiviolenza è sostenuta anche nell’affrontare il peso psicologico delle procedure giudiziarie: non va mai dimenticata la difficoltà che queste persone provano, per la radicata convinzione di stare “danneggiando” il padre dei loro figli, con connesso senso di colpa e fortissima spinta ad abbandonare ogni iniziativa.

Se è vero che una certa percentuale di abbandoni è connaturata al fenomeno, è altrettanto vero che le donne, seguite da un Centro Antiviolenza con personale adeguatamente esperto e formato, difficilmente interrompono il percorso e rientrano nel circuito di violenza.

Il CAV, su richiesta della donna, rilascia una relazione/certificazione sul percorso di sostegno intrapreso descrivendo sia il tipo di progetto, sia i presupposti del medesimo. Questo tipo di certificazione può essere prodotta in giudizio. Meno efficace è invece la citazione delle operatrici, sia perché le stesse possono avvalersi della facoltà di non rispondere, sia perché il particolare ambito professionale le espone ad un rischio non indifferente che è preferibile evitare (la casistica di minacce e attacchi diretti non va trascurata).

Non di rado, nel corso di indagini su fattispecie di maltrattamento, quando la vittima riferisce di essere seguita da un CAV, le stesse FF. OO., su richiesta delle Procure competenti, acquisiscono direttamente la relazione/certificazione.

È sempre opportuno, per il difensore, confrontarsi direttamente con le operatrici alle quali sia affidata l’assistita, perché possano supportare la donna negli snodi fondamentali della procedura in corso, e per un confronto sulle informazioni rispettivamente disponibili, che spesso vanno a completarsi reciprocamente e consentono di agire con maggior ponderazione.  La disponibilità al confronto con il legale e l’iniziativa nel contattarlo/coinvolgerlo nel percorso della donna, in alcuni casi può essere considerato un feedback dell’effettiva esperienza e capacità di chi la sta supportando.

In conclusione, un’efficace assistenza di una vittima di violenza deve prevedere, nei casi più rilevanti, l’avvio ad un CAV di riferimento, quanto meno per un primo confronto che, nella maggioranza dei casi, consente alla difesa di essere più accurata, tempestiva e completa.

Caratteristiche che, nei casi di violenza domestica, possono fare la concreta differenza e determinare la salvezza e la dignità di una vita.

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