Questioni deontologiche dei professionisti coinvolti: la responsabilità dei consulenti.

di proff. Marco Monzani & Fabio Benatti - Iusve

La ‘seconda vittimizzazione’ consiste in tutte quelle conseguenze di carattere psicologico derivanti dalla situazione nella quale si viene a trovare una vittima di reato nel momento in cui deve denunciare, o comunque riferire a terzi, quanto subìto: vergogna, timore di non essere creduta, senso di colpa per quanto subito, ... rappresentano le principali manifestazioni di questo fenomeno (Monzani, 2013; 2019; 2021).

La ‘seconda vittimizzazione’ può estrinsecarsi con diverse modalità, producendo effetti diversi a seconda del particolare momento, e della particolare situazione, che si trova a vivere la vittima.

Ad esempio, nel momento in cui, a ridosso del fatto subìto, ella dovrà riferire quanto accaduto a terze persone (soccorritori, forze dell’ordine, ...) prevarrà un senso di vergogna dovuto alla “necessità” di scendere nei minimi dettagli nella descrizione del fatto subìto al fine di poterlo circoscrivere dal punto di vista giuridico e riferirlo a una, o a più, fattispecie di reato.

Anche se il primo esempio che verrebbe in mente sarebbe quello della vittima di violenza sessuale, si pensi anche ad altre situazioni, ad esempio quella che vede coinvolto un anziano vittima di truffa o raggiro: il senso di vergogna nel dover riferire e “ammettere” di essere stato raggirato, potrebbe provocare conseguenze psicologiche importanti (quali, ad esempio, il timore che i propri familiari perdano fiducia in lui), tanto da portare l’anziano, a volte, a decidere di non denunciare quanto avvenuto. Nonostante il senso di vergogna la vittima, in questa fase, sentirà comunque di essere accolta da persone che “stanno dalla sua parte”.

Quando si tratta, invece, di riferire quanto subìto in un contesto processuale/dibattimentale, la ‘seconda vittimizzazione’ consiste, prevalentemente, nel timore per le vittime di non venire credute, e questo anche a causa della presenza, nel processo, della controparte, la quale avrà buon gioco nel tentare di minare la credibilità della vittima e l’attendibilità del suo portato dichiarativo relativo all’esperienza di vittimizzazione.

La ‘seconda vittimizzazione’ potrebbe venire amplificata nei suoi effetti a causa, ad esempio, di una raccolta di sommarie informazioni (SIT), o di un ascolto in sede processuale, svolti in maniera errata, con pregiudizi verso la vittima e con sua conseguente colpevolizzazione (Vezzadini, 2007).

Il timore di una ‘seconda vittimizzazione’ è tra le principali cause di mancate denunce, da parte delle vittime, di quanto accaduto (Monzani, 2019). A questo proposito si sottolinea come una situazione nella quale una vittima vorrebbe denunciare quanto subìto ma decide, obtorto collo, di non farlo per paura di una seconda vittimizzazione rappresenta, già di per sé, una seconda vittimizzazione. Ci si trova, quindi, di fronte al paradosso per cui, per timore di una seconda vittimizzazione, si subisce una seconda vittimizzazione …  In ogni caso, il dover (o il non poter) raccontare l’accaduto a terzi è causa, già di per sé, di una seconda vittimizzazione, che si estrinseca nelle modalità accennate sopra, ed è, di per sé, inevitabile.

Tuttavia, una preparazione adeguata, non solo dal punto di vista tecnico ma anche, e forse soprattutto, deontologico, di tutti i professionisti occupati nell’accoglienza e nell’ascolto della vittima risulta fondamentale per tentare di ridurre ai minimi termini gli effetti di questo fenomeno.

La ‘seconda vittimizzazione’ causata dalla scarsa preparazione degli operatori, oltre a provocare danni rilevanti nella vittima, potrebbe essere alla base della scelta di non denunciare, da parte di tante altre vittime, se venute a conoscenza dell’esperienza traumatica della prima. Oltre a una buona preparazione degli operatori destinati ad accogliere le vittime, richiamo indispensabile deve essere fatto anche alla deontologia professionale di altri protagonisti (in particolare avvocati) il cui comportamento e atteggiamento potrebbero provocare danni psicologici importanti.

Diverse scelte legislative sono andate nella direzione di limitare il più possibile la seconda vittimizzazione. Ad esempio, la riforma del codice penale del 1975 che ha unificato i reati che riguardavano la sfera sessuale in un’unica fattispecie (la violenza sessuale), evitando così alle vittime di dover ricostruire e riferire nei minimi particolari i dettagli della violenza subìta. Anche la recente normativa che riconosce la situazione di particolare vulnerabilità nella quale potrebbero trovarsi vittime in presenza di determinate condizioni, consente di evitare alle vittime stesse fasi procedurali e processuali fortemente vittimizzanti; la previsione dell’ascolto in incidente probatorio con ascolto protetto, così come la raccolta della denuncia con modalità particolari, ad esempio, vanno proprio in questa direzione.

La tematica della seconda vittimizzazione è talmente importante che già da diversi anni negli USA sono in vigore protocolli e linee guida che devono essere applicati dagli operatori che si accingono ad accogliere e ascoltare una vittima, soprattutto se vittima di reati che coinvolgono la sfera personale, sessuale in particolare.

Nella premessa al First response to victims of crime, in dotazione alle forze dell’ordine statunitensi, è possibile leggere (Leone, Monzani, Tettamanti, 2013): «Ricordate sempre che siete lì per le vittime! Le vittime di reato non sono semplicemente testimoni che assistono alle vostre funzioni. In altre parole, la vittima in primis! Si può rispondere al meglio a singoli tipi di vittime di reato e specifici tipi di vittimizzazioni criminali, comprendendo, per prima cosa, i tre bisogni che la maggior parte delle vittime ha dopo che è stato commesso un crimine: il bisogno di sentirsi al sicuro, il bisogno di esprimere le proprie emozioni e il bisogno di sapere “cosa succederà poi”». Il protocollo indica, inoltre, quali atteggiamenti e comportamenti tenere al fine di soddisfare queste tre necessità e limitare il più possibile la seconda vittimizzazione.

Prima priorità: la necessità della vittima di sentirsi al sicuro

1. Presentatevi alla vittima attraverso nome e titolo;

2. spiegate brevemente il vostro ruolo e i vostri doveri;

3. rassicurate la vittima sulla sua incolumità e sul fatto che siete disponibili per le loro esigenze, facendo attenzione alle parole, alla postura, al modo di fare e al tono della voce;

4. esprimete alla vittima frasi del tipo: «Lei ora è al sicuro», «Sono qui adesso»;

5. usate il linguaggio del corpo per mostrare preoccupazione e interesse

Seconda priorità: la necessità della vittima di esprimere le proprie emozioni

1. Non interrompete o non “tagliate corto” mentre la vittima esprime il suo stato d’animo;

2. osservate il linguaggio del corpo della vittima, come la postura, l’espressione facciale, il tono della voce, i gesti, il contatto degli occhi e l’apparenza generale;

3. rassicurate la vittima, spiegando che le sue reazioni al crimine non sono insolite;

4. mostrate comprensione alle vittime, dicendo: «Sta vivendo qualcosa di terribile, mi dispiace», «Ciò che sta provando in questo momento è completamente naturale», «Questo è stato un crimine tremendo, mi dispiace sia accaduto a Lei»;

5. misurate qualsiasi rimprovero verso le vittime e sottolineate frasi del tipo: «Non ha fatto nulla di sbagliato, non è colpa Sua»;

6. chiedete alla vittima come si sente e ascoltatela;

7. ripetete o formulate con parole vostre ciò che credete di aver sentito/capito dal racconto della vittima, per es.: «Vediamo se ho compreso correttamente. Lei ha detto ... », «Allora, da quello che ho capito...», «Sta dicendo...?».

Terza priorità: la necessità della vittima di sapere “cosa accadrà dopo”

1. Spiegate alla vittima che cosa si sta facendo, le procedure per l’applicazione della legge, le mansioni pendenti come la classificazione del rapporto, l’indagine riguardo il crimine, l’arresto e la contestazione dell’accusa di un sospetto;

2. parlate alla vittima riguardo le ulteriori interviste collegate alle indagini o altri tipi di eventi che potrebbe aspettarsi;

3. lasciate che la vittima sappia quali informazioni riguardanti il crimine saranno disponibili per i media e quale può essere la probabilità che vengano pubblicate;

4. spiegate alla vittima che difficoltà di concentrazione, perdita di memoria, depressione e disturbi fisici sono reazioni naturali tipiche delle vittime di crimini;

5. chiedete alla vittima se ha domande da fare.

6. fornitele, per iscritto, il vostro numero di telefono sollecitandola a chiamare nel caso ci fosse necessità di ulteriore assistenza.

In Italia, le Linee Guida Deontologiche per lo Psicologo forense (Associazione Italiana di Psicologia Giuridica – AIPG, 1999) richiamano, seppur indirettamente, a un comportamento virtuoso dello psicologo forense, comportamento che ha come conseguenza anche quella di limitare il più possibile gli effetti della ‘seconda vittimizzazione’.

L’articolo 2 così recita: «Lo psicologo forense non abusa della fiducia e della dipendenza degli utenti destinatari e delle sue prestazioni che a causa del processo sono particolarmente vulnerabili alla propria attività. Per questo, lo psicologo si rende responsabile dei propri atti professionali e delle loro prevedibili dirette conseguenze (cfr. art. 3 Codice Deontologico)».

L’articolo 14 prevede: «Lo psicologo forense rende espliciti al minore gli scopi del colloquio curando che ciò non influenzi le risposte, tenendo conto della sua età e della sua capacità di comprensione, evitando per quanto possibile che egli si attribuisca la responsabilità per ciò che riguarda il procedimento e gli eventuali sviluppi (art. 8. Carta di Noto). Garantisce nella comunicazione col minore che l’incontro avvenga in tempi, modi e luoghi tali da assicurare la serenità del minore e la spontaneità della comunicazione; evitando, in particolare, il ricorso a domande suggestive o implicative che diano per scontata la sussistenza del fatto reato oggetto delle indagini (art. 6 Carta di Noto)».

In conclusione, la questione della seconda vittimizzazione riferita agli operatori che entrano in contatto con vittime di reato (in particolare soccorritori, forze dell’ordine, consulenti, ...) ha a che fare sì con aspetti legati a una corretta formazione e preparazione tecnica degli operatori stessi, ma ha a che fare anche, e forse soprattutto, con questioni di carattere deontologico dalle quali non è possibile prescindere.

Riferimenti bibliografici

Leone A.; Monzani M.; Tettamanti M., Primo approccio e supporto alle vittime, Milano, Gruppo editoriale Viator, 2013.

Monzani M., Manuale di Psicologia Giuridica. Elementi di psicologia criminale e di vittimologia, Padova, Libreria Universitaria editore, 2013.

Monzani M., Il modello circolare di vittimizzazione. Dalle percezione del rischio alla consapevolezza della vittimizzazione, Milano, Key editore, 2019.

Monzani M., The Circular Model of Victimization and Teamwork Within the Italian Anti-Violence Centers: A General Survey, in International Annals of Criminology, Cambridge University Press, 1, 2021.

Vezzadini S., La vittima di reato. Tra negazione e riconoscimento, Bologna, Clueb editore, 2007.

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