Nuova condanna dell’Italia per non avere tutelato le vittime di violenza domestica: Corte EDU, 10 novembre 2022, I.M. ed altri c. ITALIA.

02 DICEMBRE 2022 | Maltrattamenti in famiglia

di avv. Marcello Stellin

All’indomani delle note pronunce Landi c. Italia (7 aprile 2022), De Giorgi c. Italia (16 giugno 2022) e Scavone c. Italia (7 luglio 2022), la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha, per la quarta volta, condannato il nostro Paese per non avere tutelato sufficientemente le vittime di violenza domestica.

Mentre gli arrêts summenzionati concernevano ipotesi di mancata protezione innanzi a rischi di recidiva vittimale (talvolta culminati in eventi di carattere fatale), il caso in oggetto riguarda, invece, un’ipotesi di vittimizzazione secondaria che la ricorrente ha dovuto subire (unitamente ai propri figli minori) a causa del modus procedendi del giudice civile, chiamato a decidere in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale e a determinare il diritto di visita del familiare maltrattante.  

Si volga un veloce sguardo ai fatti.

In data 9 luglio 2014, la ricorrente era costretta a fuggire dalla casa familiare assieme ai propri figli, riparando presso un centro antiviolenza. Motivo di questo allontanamento erano le vessazioni poste in essere, a suo danno, dal padre dei bambini, soggetto alcolista e tossicodipendente.

Solamente una volta in condizioni di sicurezza, la persona offesa provvedeva a denunciare l’ex partner.

La Procura Minorile, informata della situazione, incardinava un procedimento de potestate, ai sensi degli artt. 330-333 c.c.

In data 17 febbraio 2015, il Tribunale per i minorenni autorizzava il padre (che aveva nel frattempo tentato di scoprire l’ubicazione della casa rifugio) ad incontrare i bambini in uno spazio protetto, messo a disposizione dai Servizi Sociali, alla presenza di uno psicologo.

Questo paradigma non veniva, tuttavia, mai rispettato, per problemi di carattere logistico.

Il Tribunale autorizzava, pertanto, dapprima che gli incontri avvenissero presso la casa rifugio (la cui ubicazione veniva, pertanto, disvelata) e, successivamente, presso il Municipio, il quale, tuttavia, comunicava di non avere locali adatti per garantire la sicurezza dei partecipanti a tali riunioni.

Gli incontri avvenivano, pertanto, senza protezione alcuna, alla sola presenza di un assistente sociale: in quella sede, il padre proferiva minacce nei confronti dell’ex partner e poneva comunque in essere un comportamento aggressivo anche verso i figli.

L’assistente sociale notiziava, di volta in volta, il Tribunale per i minorenni circa il comportamento aggressivo del padre, affermando di non essere più in grado di supervisionare le riunioni.

A detta dell’operatore, il rapporto padre-figli non poteva essere gestito in maniera sana per i bambini, proprio a causa dell’atteggiamento serbato dal genitore.

Sia l’assistente sociale, sia il Comune, sia la ricorrente domandavano al Tribunale d’intervenire al fine di garantire la protezione della madre e dei bambini nel corso degli incontri.

Dopo alcune interruzioni, gli incontri riprendevano alla presenza di un diverso assistente sociale.

Nelle more, la ricorrente, attesa la mancanza di sistemazione, era stata, peraltro, costretta a trasferirsi, con i bambini, a casa dei propri genitori, in un paese a sessanta chilometri di distanza dalla sede delle riunioni. Ella rappresentava di non essere più in grado di percorrere una simile distanza, anche a causa del lavoro che aveva nel frattempo trovato: chiedeva, pertanto, che le riunioni fossero organizzate in ambiente protetto.

Il padre querelava, pertanto, l’ex partner per il delitto di cui all’art. 388 c.p. La notitia criminis veniva, tuttavia, archiviata in data 19 ottobre 2017: il Giudice per le indagini preliminari prendeva, infatti, atto sia degli sforzi profusi dalla ricorrente al fine di garantire la presenza dei minori agli incontri, sia di tutte le difficoltà sottese al predetto contesto.

Il comune informava, tuttavia, il Tribunale per i minorenni che la madre non aveva accompagnato i minori agli incontri previsti a gennaio 2016: il Tribunale, per tutta risposta – senza avere prima ascoltato l’assistente sociale che aveva denunciato la condotta paterna – sospendeva la responsabilità tanto della madre (in quanto genitore ostacolante), quanto del padre.

Veniva, quindi, ordinata un’indagine finalizzata a valutare la capacità genitoriale di entrambi.

La Corte d’appello, in data 2 agosto 2016, respingeva il ricorso della madre avverso la decisione predetta, ritenendo che l’odierna ricorrente avesse osteggiato il diritto del padre alla bigenitorialità.

Quest’ultimo veniva, peraltro, rinviato a giudizio in data 16 giugno 2016 per i maltrattamenti posti in essere ai danni dell’ex compagna in corso di convivenza, nonché per le minacce a costei rivolte nel corso degli incontri asseritamente protetti.

Il Tribunale ordinario, nel frattempo, in data 14 giugno 2016, attribuiva l’affidamento esclusivo dei figli alla madre (provvedimento poi revocato l’anno successivo), disponendo che gli incontri con il padre avvenissero osservando le prescrizioni originariamente impartite dal Giudice minorile.

In data 12 ottobre 2016, l’esperto incaricato dal Tribunale per i minorenni affermava che il padre aveva un comportamento aggressivo ed un discontrollo degli impulsi. La ricorrente, benché provata a causa delle violenze subite, veniva ritenuta adeguata sotto il profilo della capacità genitoriale: costei veniva, tuttavia, ammonita a non interferire nei rapporti padre/figli. Nonostante la madre avesse affermato che i bambini si sentivano a disagio durante gli incontri con il padre, veniva raccomandata la prosecuzione degli stessi in ambiente protetto.

Il Tribunale per i minorenni veniva, tuttavia, informato (in plurime occasioni) che, durante gli incontri, il padre non riusciva a controllare la propria aggressività, anche fisica: ciò esponeva i bambini sia ad un forte stress, sia ad un rischio per la loro incolumità, non essendo possibile garantire la loro sicurezza in quelle sedi.

In data 10 aprile 2018, la Procura Minorile chiedeva al Tribunale di reintegrare la responsabilità genitoriale materna. Nelle more venivano sospesi gli incontri padre/figli. Solo in data 15 maggio 2019 veniva revocato il provvedimento ex art. 330 c.c., dopo che i Servizi sociali descrivevano (in una relazione inviata al Tribunale) la ricorrente quale genitore premuroso nei confronti dei figli.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ravvisa una violazione dell’art. 8 della CEDU posta in essere dalle Autorità dello Stato italiano ai danni sia della madre sia dei figli minori.

Tanto la madre, quanto i suoi bambini, chiosano i Giudici di Strasburgo, hanno subito un’indebita ingerenza da parte dello Stato nella loro vita privata e familiare.

Trattasi di una interferenza immotivata in quanto non necessaria, all’interno di una società democratica, a perseguire uno dei fini legittimi contemplati dall’art. 8 §2 della Convenzione (e.g. la protezione dei diritti o delle libertà altrui).

Giova, a questo proposito, soffermarsi brevemente sull’art. 31 della Convenzione di Istanbul (2011): la norma concerne i rapporti tra la violenza domestica e l’esercizio della responsabilità genitoriale.

Il legislatore pattizio ha infatti prescritto che: «al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, devono essere presi in considerazione gli episodi di violenza» (§1): ciò anche qualora l’aggressione sia stata posta in essere esclusivamente da parte di un genitore ai danni dell’altro.

Anche se il minore non è direttamente coinvolto, il ricorso alla violenza postula comunque una inidoneità del genitore sotto il profilo educativo che non può essere ignorata.

In ogni caso, qualunque sia la decisione de potestate, l’esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non deve assolutamente compromettere i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini (§2).

Non solo.

L’art. 48 della predetta Convenzione vieta il ricorso obbligatorio a forme di risoluzione alternativa delle controversie in casi di violenza domestica o comunque di genere.

Il rapporto GREVIO (Gruppo di esperti/e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), stilato a seguito di un’indagine sul nostro Paese conclusasi nell’anno 2019 (ampiamente citato dalla presente sentenza), ritiene, a questo proposito, che anche forme d’incontro promosse in ambito civile tra genitore violento e genitore non violento (finalizzate alla ricerca di un accordo in merito all’affidamento del minore) possano rientrare nell’ambito del summenzionato divieto.

Tale premessa è valida specie laddove la non adesione da parte del genitore non violento esponga quest’ultimo ad un giudizio di biasimo da parte del giudice civile, col rischio di conseguenze negative in materia de potestate.

Mediazione e violenza – è appena il caso di sottolinearlo - costituiscono, infatti, un ossimoro: la prima postula un rapporto paritetico; la seconda sottende, invece, la prevaricazione di un soggetto ai danni di un altro (cfr. L. FEDER, Women and Domestic Violence, Londra, 1999, 40). Non è, quindi, possibile costringere una vittima ad incontrare il proprio aggressore, specie laddove costui non abbia ammesso o tenda a sminuire l'addebito (fattore, quest'ultimo, che peraltro costituisce condicio sine qua non ai fini dell’accesso ai protocolli della restorative justice ex art. 12 della Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio). Il rischio è molteplice: da un lato si mette nuovamente in pericolo l’incolumità fisica della vittima; dall’altro lato, si espone la persona offesa ad ulteriori forme di controllo, intimidazione e manipolazioni da parte del soggetto abusante, pregiudicando la libertà morale del soggetto abusato che non sarà mai libero di esprimersi, con conseguente rischio d’inquinamento probatorio qualora vi sia un procedimento penale in corso od ancora da instaurare.

Nulla di tutto ciò è stato osservato nel caso di specie.

La Corte ha stigmatizzato in toto il modus procedendi del Tribunale per i Minorenni.

Il Giudice nazionale, innanzitutto, non ha tutelato adeguatamente il diritto dei minori ad un libero sviluppo psicofisico: i figli della coppia sono stati, peraltro, esposti anche ad un rischio per la loro incolumità ogniqualvolta hanno dovuto incontrare il padre in condizioni tali da non riuscire a contenere l’aggressività di costui.

Il Tribunale per i minori, chiosa la Corte, non ha effettuato un corretto bilanciamento dei valori in gioco: l’interesse superiore dei minori è stato, infatti, sacrificato in nome del diritto paterno a mantenere contatti con i figli.

Non meno illegittimo (rispetto ai canoni europei) è apparso il comportamento del Giudice nazionale nei confronti della madre.

Il Tribunale per i minorenni ha, infatti, costretto la ricorrente a subire una forma di vittimizzazione secondaria. Trattasi di un fenomeno assai multiforme, innescato da errate modalità di approccio alla vittima da parte degli organi giudiziari, suscettibili, per quel rileva in parte qua, di minimizzare il trauma subito o di denigrare il soggetto passivo del reato (cfr. AA.VV., Victims of Crime, editors R. C. Davis, A. J. Lurigio, S. Herman, Londra, 2007).

Nel caso di specie, il Giudice nazionale ha privato per ben tre anni la madre della propria responsabilità ex art. 330 c.c., screditandola in quanto presunto genitore ostile e non collaborante (di fatto punendola), senza tenere conto, in alcun modo, né delle violenze ch’ella aveva subito (e stava subendo nel corso degli incontri), né del procedimento penale in corso.

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