Per la quantificazione dell’assegno divorzile il Giudice può dare rilievo solo ad alcuni dei parametri previsti dalla legge.

02 DICEMBRE 2022 | Separazione e divorzio

di avv. Chiara Curculescu

IL CASO. La Corte d’appello di Milano con sentenza del 2.11.2017 rigettava l’impugnazione proposta dal marito avverso la pronuncia con la quale il Tribunale di Busto Arsizio, pronunciandosi nella causa per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, poneva a suo carico il pagamento di un assegno divorzile di € 1.300,00 mensili a favore della moglie. Nel giudizio di appello veniva affermato che, nel caso preso in esame, tra i diversi parametri di riferimento relativi all’assegno divorzile, occorreva dare primario rilievo al consistente divario reddituale tra i coniugi (la moglie percettrice della sola pensione, il marito magistrato del TAR con reddito annuale di circa centomila euro) anche alla luce delle condizioni di salute della moglie, apparendo invece irrilevanti i parametri connessi all’apporto di contributo personale ed economico sia rispetto al patrimonio comune o personale che alla conduzione della famiglia.

Avverso tale pronuncia il marito proponeva ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi. Con il primo motivo veniva denunciata la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. comma 2 n.4 e dell’art. 360 comma 1 n.4 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto irrilevanti i parametri forniti dall’art. 5 comma 6 L.898/1970, a fronte della preminenza del divario reddituale tra coniugi. Con il secondo motivo veniva denunciata la violazione dell’art. 5, comma 6, della L.898/1970 e dell’art. 360 comma 1 n.3 c.p.c. stante l’omessa considerazione di tutti parametri di determinazione dell’assegno divorzile ai fine della quantificazione dell’importo dell’assegno stesso. Infine, con il terzo motivo, veniva dedotta la violazione degli artt. 112 e 360 comma 1 n.4 c.p.c. per l’omessa statuizione sulle spese del giudizio di primo grado da parte della Corte d’appello.

LA DECISIONE. La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n. 26672 del 9.9.2022, ritenendo inammissibile il secondo motivo ed infondati il primo ed il terzo, ha rigettato il ricorso.

Quanto in particolare al primo motivo di ricorso, la Corte ha anzitutto rilevato come, a seguito della riforma del 2012, il sindacato di legittimità circa il vizio di motivazione sia limitato alle ipotesi in cui esso si converte in violazione di legge costituzionalmente rilevante, ovvero alle ipotesi di assoluta omissione o mera apparenza della motivazione e di irriducibile contraddittorietà e illogicità manifesta della stessa.

Nel caso specifico, la censura del ricorrente aveva ad oggetto semplicemente la valutazione effettuata dalla Corte d’appello circa l’esclusione della rilevanza di alcuni parametri di riferimento per il calcolo dell’assegno divorzile, senza dedurre l’assoluta carenza di motivazione della decisione o la sua incomprensibilità. La decisione impugnata rilevava, infatti, espressamente come nel caso preso in esame venisse data preminenza al parametro del divario reddituale tra coniugi a fronte dell’irrilevanza degli altri parametri indicati dall’art. 5 comma 6 della L.898/1970, di cui in generale va tenuto conto per la determinazione e quantificazione dell’assegno divorzile.

Come già statuito altre volte dalla Suprema Corte, “nel quantificare l’assegno di divorzio, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti, e contemporaneamente, i parametri di riferimento indicati dalla L. n. 898 del 1970, art.5, ma può anche prescindere da alcuni di essi, dando adeguata giustificazione delle sue valutazioni, con una scelta discrezionale non sindacabile in sede di legittimità”.

Dalle stesse argomentazioni ne è derivata l’inammissibilità del secondo motivo di impugnazione.

Infine, per quanto attiene il terzo motivo, riguardante le spese di lite del primo grado di giudizio, la Corte di Cassazione, dichiarandone l’infondatezza, ha evidenziato come la condanna alle spese del secondo grado implichi necessariamente il giudizio sulla correttezza di quella di primo grado, dovendosi quindi ritenere implicitamente respinto il motivo di gravame stesso.

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