L’efficacia dei patti parasociali accessori al decreto di omologa della separazione secondo la Cassazione

Con una recentissima decisione la Corte di Cassazione ha risolto una interessantissima controversia insorta in tema di interferenza tra accordi di separazione personale e patti parasociali.

IL CASO. Tizio e Caia avevano stipulato un patto parasociale quale “accessorio al decreto di omologa della [loro] separazione personale”, intervenuta nel novembre del 2010.
In particolare, nel verbale di separazione erano state riportate la ripartizione delle quote della società Alfa S.p.a., “assegnate per il 45% del capitale sociale a [Caia] e per il 50% a [Tizio]”, nonché una “convenzione parasociale”.
In data 28.03.2011 l’accordo separativo era stato “ripreso, e meglio specificato, nonché addizionato, a mezzo di un ulteriore atto, denominato ‘patto esecutivo’”, col quale i coniugi separati avevano “essenzialmente regolato la materia delle nomine dei membri del consiglio di amministrazione, dei sindaci e del presidente del consiglio, lasciando a [Tizio] quest'ultima carica, con il potere di rappresentare la società e di esercitare in via delegata i poteri di ordinaria amministrazione, nonché, entro dati limiti, quelli di straordinaria amministrazione” ed avevano, altresì, previsto, “per il caso di mancato rispetto degli accordi assunti, … il pagamento a carico dell'inadempiente di una ‘penale dell'importo di Euro 500.000,00 per ogni inadempienza che dovesse aver luogo, fatto salvo il diritto’ della parte non inadempiente ‘a pretendere il risarcimento di ogni ipotetico maggior danno’”.
Nel novembre del 2012 Caia aveva adito il Tribunale di Trieste, allegando come, a seguito dell’aumento del capitale della società Alfa, che aveva sottoscritto anche per la parte lasciata inoptata dal marito, detenesse il 97,30% del capitale sociale, mentre la partecipazione del marito era scesa alla percentuale del 2,5%.
Per tale ragione, ella aveva chiesto l'accertamento della nullità del patto anzidetto “per sopravvenuta immeritevolezza ex art. 1322 c.c., comma 2 ovvero per illiceità degli interessi ad esso sottesi ovvero pure per violazione del principio dell'esclusività della funzione gestoria ex art. 2380 bis c.c.”, in via subordinata “la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta e/o il diritto di recedere per giusta causa”, nonché, in ulteriore subordine, la “modifica delle condizioni di separazione”.
Tizio si era costituito in giudizio, chiedendo la reiezione delle domande avversarie e, in via riconvenzionale, la condanna della moglie al “pagamento della somma di un milione e mezzo di Euro a titolo di penale (secondo quanto contrattualmente stabilito), per avere la stessa tenuto in tre distinte situazioni, tra l'ottobre e il dicembre 2012, comportamenti divergenti dalle prescrizioni contenute nel patto parasociale e in violazione delle stesse”.
Il Tribunale di Trieste aveva accolto la domanda proposta da Caia, dichiarando la nullità del patto parasociale per il venir meno della sua causa concreta.
Tale decisione era stata riformata dalla Corte d’appello di Trieste, che, in accoglimento della domanda di Tizio, aveva condannato Caia al pagamento delle penali.
Quest’ultima aveva, pertanto, proposto ricorso per cassazione, in base a otto motivi.
In particolare, con i primi tre aveva censurato la sentenza della Corte d’appello per non aver riconosciuto che “il sopravvenuto mutamento delle percentuali di capitale … possedute dai parasoci … [aveva] senz’altro comportato … la cessazione … degli effetti del patto parasociale”.
Ciò in quanto “il contenuto essenziale del patto è quello di prevedere un regime di controllo congiunto della società da parte dei due coniugi separati. La presenza di [Tizio] in c.d.a. è prevista come solo possibile... e non come necessaria … In sostanza, si tratta … di un elemento accessorio, di taglio unicamente ‘eventuale’”.
Di qui, la “piena plausibilità dell'interpretazione che ritiene il patto di stabilizzazione del governo societario logicamente e funzionalmente collegato a un certo assetto proprietario, che sussisteva al momento della conclusione dell'accordo stesso e che poi è venuto meno dopo l'operazione di aumento del capitale”.
A sostegno della propria tesi, Caia aveva altresì sostenuto che “al tempo della confezione del patto l'assetto proprietario di [Alfa] vedeva una partecipazione quasi-paritaria dei parasoci al capitale sociale. Questa caratteristica, comportando una partecipazione pressoché paritaria al rischio di impresa, giustificava senz'altro la costruzione, a mezzo della convenzione parasociale, di un regime di controllo congiunto … Di conseguenza, … la funzione del patto e la sua causa concreta non possono non venire meno nel caso cessi la situazione di ‘condivisione’ dell'investimento e del rischio d'impresa”.
Al contrario, la Corte d’appello, assegnando al patto parasociale la “specifica funzione di regolare il ‘solo aspetto gestionale della società con attribuzione di maggiori poteri” a Tizio e individuandone la “causa concreta … nella funzione di governo societario orientato a favore” di Tizio stesso, aveva “compiuto violazioni determinanti nell’adozione dei canoni di interpretazione del patto parasociale”, altresì violando il “principio generale dell'ordinamento che vieta lo svuotamento dei poteri assembleari”, il “principio di ragionevolezza” ed il “principio costituzionale di tutela della proprietà privata (cfr. art. 42 Cost.)”, in quanto, a seguito dell’aumento, “il socio che detiene una partecipazione quasi totalitaria si vede vincolato da obblighi assunti nel patto nei confronti dell'altro socio ... che … detiene il 2,5% del capitale”.
Col settimo motivo di ricorso Caia aveva censurato la sentenza della Corte d’appello triestina laddove aveva “escluso il [suo] diritto a recedere dal patto parasociale”, in quanto “è principio del diritto societario applicabile anche ai patti parasociali, in ragione della partecipazione, della ratio che lo giustifica, alla relazione sociale come quella parasociale, quello espresso dall'art. 2285 c.c., comma 2, secondo il quale il socio può recedere dal contratto di società quando sussiste una giusta causa”, quale “l'alterazione degli assetti proprietari, portata dall'aumento” del capitale sociale.
Con l’ottavo motivo la ricorrente aveva, invece, contestato la “decisione della sentenza impugnata di non procedere, ai sensi dell'art. 1384 cod. civ., alla riduzione per eccessività della penale prevista dalla clausola numero 7 del patto parasociale”, in quanto la “funzione della penale … rimane esclusivamente quella di consentire una liquidazione preventiva e forfetaria del danno patrimoniale subito dal creditore”.

LA DECISIONE. La Corte di Cassazione civile, con la sentenza n. 18138/2018, ha accolto solamente l’ottavo motivo di ricorso.
Quanto ai primi tre motivi, li ha respinti, negando che la Corte d’appello avesse “compiuto violazioni determinanti nell'adozione dei canoni di interpretazione del patto parasociale”, essenzialmente per due ragioni.
Anzitutto, “la valorizzazione del canone dell'interpretazione sistematica, su cui preme la ricorrente, fa in effetti emergere … che il detto patto possiede in sé (pure) una componente rivolta alla delineazione e formazione di ‘decisioni congiunte’ (o di ‘condizionamento reciproco’, secondo l'espressione della ricorrente)”, ma “questa connotazione, tuttavia, non viene a oscurare, né a far impallidire la constatazione che il patto in esame anche contempla e regola in peculiare maniera la posizione di [Tizio] in punto di presidente del consiglio di amministrazione e di amministratore con deleghe … ll fatto che il patto assegni a [Tizio] una facoltà in proposito - e non già un compito, ovvero una funzione - indica solamente che si tratta di previsione contrattuale posta nell'interesse proprio del medesimo [Tizio] …  Né si può mettere in dubbio - dati appunto i poteri riconnessi dal patto all'esercizio della detta facoltà - che quest'ultima rivesta, nell'economia complessiva del patto medesimo, un rilievo del tutto primario”.
Inoltre, “nemmeno può essere condivisa l'opinione della ricorrente là dove viene a ricollegare la richiamata previsione di ‘decisioni congiunte’ al fatto che - al tempo della confezione del patto parasociale - le partecipazioni di [Tizio e Caia] al capitale della [Alfa] fossero ‘pressoché paritarie’”.
Diversamente, la Cassazione sottolinea che “il patto parasociale ... viene posto in essere nel contesto dello scioglimento di una comunione legale tra coniugi avvenuto a seguito della loro separazione personale.
Esso fa parte, correlativamente, degli accordi di divisione del compendio che all'epoca era in comunione. Lo stesso, dunque, si confronta con una tematica di ‘assetti proprietari’ - e di equilibrio nella divisione -, che si manifesta decisamente diversa da quella circoscritta al possesso di una società e in sé stessa assai più ampia, perché assume a proprio perimetro l'intero asse dei beni caduti in comunione.
In questa complessa fattispecie - formata dall'accordo di separazione, con scioglimento della comunione legale e divisione del compendio - risiede, conseguentemente, la causa concreta del detto patto parasociale, quale parte di questo tutto
”.
La Cassazione ha, così, colto l’occasione per precisare che

“sulla efficienza di un patto parasociale - che trova la sua causa giustificativa nell'ambito degli accordi di divisione del complessivo compendio di una comunione sciolta per separazione personale tra coniugi - non hanno influenza, per sé, le vicende che concernono il successivo svolgimento dell'impresa sociale a cui è relativo, quale, nella specie concreta, l'aumento di capitale

verificatosi nel luglio del 2012. Contro la permanente efficacia del patto in questione neppure possono valere, d'altro canto, gli ulteriori rilievi che la ricorrente muove adducendo la mancanza di meritevolezza … di un patto parasociale operante tra una maggioranza del 97,30% del capitale sociale e una minoranza del 2,50%”.
Ciò in quanto “la prosecuzione di efficacia del patto parasociale” non viola alcun principio laddove, come nel caso di specie, presenti il carattere della “temporaneità”,  si concentri sul “solo tema delle cariche sociali … sì che non ha in ogni caso luogo discorrere, in proposito, di svuotamento dei poteri dell'assemblea, né di compressione esorbitante del diritto di proprietà” e ponga regole che “non vengono a incidere sul potere di controllo che sull'agire dell'apparato amministrativo la legge attribuisce all'assemblea dei soci”.
La Corte di Cassazione ha, poi, rigettato il settimo motivo, rilevando che “ad assumere la prospettiva fatta propria dalla attuale ricorrente, dell'equiparazione della disciplina del recesso dal patto parasociale a quella del recesso dal contratto di società - la situazione nel concreto dedotta nel presente giudizio non fa sorgere un diritto di recesso”.
Ciò perché “la norma dell'art. 2437 c.c. viene a tipizzare la ‘giusta causa’ di recesso in una serie peculiari di ipotesi. Nell'ambito delle quali non rientra, in quanto tale, il genere delle delibere dell'aumento di capitale”.
Nell’esaminare l’ottavo motivo di ricorso, il Giudice di legittimità ha affermato che “è orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte che l'apprezzamento dell'eventuale eccessività della penale per inadempimento supponga - si tratti di richiesta di parte o di iniziativa d'ufficio - che le circostanze rilevanti per il giudizio di sproporzione comunque emergano dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, quale risultante ex actis, senza che il giudice possa ricercarlo d'ufficio (cfr., tra le più recenti Cass., 25 ottobre 2017, n. 25334; Cass., 19 ottobre 2017, n. 24732)”.
Nel caso di specie, per la Cassazione “il materiale probatorio acquisito al processo, specie per iniziativa dell'attuale ricorrente, rivel[ava] la presenza di più elementi senz'altro rilevanti per la formulazione del giudizio di eventuale eccessività”: il “comportamento nell'insieme tenuto da [Tizio], come espressivo del suo interesse rispetto all'adempimento delle prestazioni altrui … e come polarizzantesi, in buona sostanza, nella votazione in assemblea dell'aumento”, la “mancata sottoscrizione della quota riservatagli in opzione”, “il fatto che l'oggettiva necessità dell'aumento di capitale sia riconosciuta dallo stesso resistente”.
Ritenendo che “la sentenza della Corte territoriale [avesse] invece del tutto trascurato, senza motivazione”, tali elementi, la Corte di Cassazione ha, pertanto, accolto quest’ultimo motivo.

 

 

 

 

 

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