La deontologia nelle relazioni di cura

Nota della Redazione:

Abbiamo chiesto al dott. Spinsanti (noto bioeticista, già componente del Comitato Nazionale per la Bioetica e presidente di numerosi comitati etici per la ricerca; nonché fondatore e direttore dell’Istituto Giano per le Medical Humanities) l’autorizzazione a riprodurre un piccolo estratto di un suo libro, di recente pubblicazione. È una riflessione precisa e, ci pare, suggestiva sulla deontologia nella relazione di cura, con intuizioni che possono estendersi alle altre professioni, compresa quella forense.

Ringraziamo il dott. Spinsanti che da ultimo ci ha inviato anche una sua efficace introduzione.

 

di dott. Sandro Spinsanti

Nel poema “Portico della seconda virtù”, Charles Péguy fa un commento che sembra legittimo riportare in un altro contesto. Parlando delle tre virtù teologali, rileva che la “piccola” speranza viene messa in ombra dalle due grandi sorelle: la fede e la carità. Invece è lei, che procede tra di loro, a portarle per mano.

L’immagine è applicabile al trio: legge, deontologia ed etica. La deontologia, che appare schiacciata tra i due altri autorevoli sistemi di regole, tanto da apparire insignificante, in realtà li porta per mano. Malgrado la relativa disattenzione che abitualmente le viene riservata.

L’osservazione vale per le norme deontologiche di molte professioni.

Per quelle di cura ha forse una rilevanza maggiore, perché richiede al professionista di comportarsi in modo controintuitivo, e di distaccarsi dal comportamento che abitualmente mettiamo in atto nei nostri rapporti sociali.

Oltre a collocare tra parentesi la qualità morale della persona che ha bisogno di cura, e quindi a rivolgere la propria attenzione allo stesso modo alla persona eccellente come a quella spregevole, proibisce al professionista di fare discriminazioni (amici e nemici, persone prossime o socialmente distanti…) e di scegliere, in base alle proprie preferenze, quali bisogni di cura assumere e quali lasciar cadere.

Pur senza voler attribuire un’aureola di santità a chi ispira il proprio comportamento alla deontologia, emerge chiaramente il profilo di eccellenza in umanità richiesto al professionista. Gli domanda un cambio di passo rispetto ai comportamenti socialmente accettati; ovvero – rimanendo nell’area di questa immagine – di alzarsi sulla punta dei piedi.

Non è così radicale la richiesta che la deontologia avanza ad altre professioni.

Alcune hanno la facoltà di scegliere o di rifiutare i propri servizi. Sempre però in un contesto particolare, destinato a nutrire la fiducia.

Sarebbe auspicabile avviare una riflessione approfondita su quel legame specifico che le diverse professioni promuovono tra chi eroga i servizi e chi li richiede.

Ne trarrebbe vantaggio la manutenzione della fiducia: che non deriva dalla legge, né è sovrapponibile all’etica. La fiducia nell’ambito professionale è un “artefatto”, che richiede impegno sia a chi la chiede, sia a chi la offre, rivestita di regole alle quali si impegna di attenersi. 

Tratto dal libro “Una diversa fiducia” di Sandro Spinsanti, edito da Il pensiero scientifico editore 2022, pagine da 90 a 94:

“Il malato è invitato a fidarsi del medico non tanto perché ha giurato di dedicarsi al suo bene, ma perché è un professionista e in quanto tale si impegna ad attenersi ad una deontologia che circoscrive il comportamento corretto.

È necessario prendere le distanze dall’idea che si tratti di una specie di morale laica, ovvero di quel minimo comune multiplo etico che fornirebbe un incontro condiviso di tutti i membri della professione.

È un equivoco che si verifica spesso a proposito della professione medica, quando si vuol vedere nella deontologia una sintesi di quei principi etici che tutti i medici riconoscerebbero come obbliganti, qualunque siano le ulteriori specificazioni etiche di natura confessionale e personale.

La funzione utilitaristica della deontologia si ripercuote sulla fiducia stessa che intende promuovere.

Questa si colloca entro i limiti tracciati dalla professione in quanto tale. Alcuni decisamente rassicuranti. A cominciare dal fatto che il rapporto instaurato tiene fuori le caratteristiche personali di chi fa ricorso al medico. La pratica della cura deve, in questo senso, mettere tra parentesi quelle dimensioni biografiche che potrebbero condizionarla: la persona gradevole come quella sgradevole, il santo e il delinquente, il familiare come l’estraneo.

È il bisogno di cura che determina il rapporto, non le preferenze del curante o le sue valutazioni circa la personalità di colui che riceve le cure. Un aspetto questo-sia detto tra parentesi- che riemerge in contesti culturali sempre nuovi: ieri era l’astensione dal giudicare chi avesse contratto l’AIDS con comportamenti moralmente discutibili, oggi è la sfida a non discriminare il cittadino No-vax che soggiace alla COVID.

Il medico inoltre è oggetto della scelta, non è l’artefice. Salvo situazioni eccezionali ben delineate, non è autorizzato a rifiutare chi fa ricorso al suo aiuto.

La professionalità implica inoltre che il gentleman auspicato da Persival mantenga, oltre alla correttezza dell’interazione anche una certa distanza emotiva: non può e non deve essere coinvolto nelle situazioni della vita, al di fuori del rapporto professionale. Infine - e non si tratta di un particolare secondario- la prestazione di cura prevede una transazione economica: il professionista non cura per generosità d’animo e per orientamento filantropico, ma è pagato per il suo lavoro. Tutto ciò circoscrive la fiducia entro un ambito preciso: quello appunto della professionalità, che la limita e la tutela.

È allo stesso tempo una gabbia e una corazza: iscrive la cura dentro una modalità che si differenzia da quella ispirata a motivazioni ideali o altruistiche, e allo stesso tempo nasconde - come il camice, che eccede la finalità puramente igienica - le debolezze individuali.

La professionalità si appoggia non tanto sull’etica, quanto sulla deontologia. Le formulazioni deontologiche sono regole che i professionisti considerano essenziali per il buon esercizio della professione comune. Sono dunque più che un semplice regolamento. Le si potrebbe chiamare uno spirito, che deriva dalla percezione collettiva dell’attività svolta, dal senso dell’attività stessa e del suo articolarsi con l’organizzazione sociale.

Con linguaggio prosaico, possono essere ricondotte a istruzioni per l’uso della professione.

Le norme deontologiche sono il frutto di una riflessione collettiva, stimolata dai problemi suscitati dalla pratica professionale, che superano l’ambito dei regolamenti e della routine. Protagonisti della riflessione deontologica sono i professionisti stessi, in atteggiamento consapevole, determinati a promuovere una prassi professionale efficiente e socialmente ineccepibile.

Il senso e la funzione della deontologia professionale possono essere efficacemente illustrati mediante un esempio tratto da tutt’altro ambito: il romanzo di Kazuo Ishiguro, “Quel che resta del giorno”, da questo è stato tratto il film di James Ivory (1993) , Con un indimenticabile Anthony Hopkins nel ruolo di Mr. Stevens, il protagonista, in servizio come maggiordomo in una residenza nobiliare inglese. Il proprietario è cambiato e Mr. Stevens non sa quale sia il comportamento appropriato da tenere con il nuovo, che oltretutto non è inglese ma americano. Nessuno gli può dire a che attenersi: lo potrebbero fare solo altri che esercitano la sua stessa professione. Per questo si trova a rievocare i tempi in cui numerosi ospiti, con i rispettivi maggiordomi, venivano in visita:

Non molto tempo addietro, quando insorgevano dei dubbi circa i propri compiti, uno di noi aveva il conforto di sapere che entro breve tempo qualche collega, la cui opinione egli teneva in gran conto, sarebbe arrivato in visita al seguito del proprio padrone e che di conseguenza vi sarebbe stato anche modo di discutere il problema.

La nostra stanza della servitù vedeva spesso radunarsi alcuni tra i migliori professionisti che vi fossero in Inghilterra, i quali si attardavano a conversare tra di loro sino a notte alta, accanto al fuoco.

Non sembri mancanza di rispetto se dalle professioni di cura abbiamo traslocato a quelle di servizio. Il centro focale delle riflessioni di Mr. Stevens vale per tutte le professioni, indistintamente.

I colleghi di lavoro, qualunque sia la professione che svolgono, sono in genere abituati a farlo ogni volta che si ritrovano”: discutono del miglior modo di eseguire il proprio lavoro. Ancora Mr. Stevens: “Molte volte, naturalmente, vi erano tra noi forti motivi di disaccordo, ma più frequentemente l’atmosfera era pervasa da un sentimento di rispetto reciproco”.

È suggestiva l’immagine dei professionisti radunati intorno al fuoco, in atteggiamento di relax, che concordano le regole della buona professione confrontandosi tra loro, non ricevendole dall’esterno.

Ci permette di cogliere, intuitivamente, la natura peculiare della deontologia professionale, qualunque sia l’attività che stimola coloro che esercitano a migliorarne la qualità. Sono i professionisti stessi che forgiano le regole alle quali attenersi per dare al proprio lavoro la massima efficienza.

Un’ultima considerazione riguarda la funzione propria delle norme deontologiche. Queste mirano alla salvaguardia di alcuni valori, necessari in modo particolare nelle attività che fanno appello alla fiducia verso la persona del professionista. Per questo le professioni liberali sono così sensibili all’onore e alla dignità professionale. L’osservanza delle norme deontologiche è destinata a mantenere la fiducia nel corpo professionale, salvaguardandone la reputazione. Si tratta in ultima analisi, di una forma di autodifesa dell’attività stessa, consapevole che senza la fiducia la pratica della cura si paralizzerebbe”.

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