La volontà di sottoporsi all’esame del DNA non è coercibile, ma il giudice può liberamente valutare il rifiuto non giustificato a sottoporvisi

IL CASO. Con sentenza n. 1321/2017 la Corte d’appello di Milano confermava la decisione del Tribunale di Milano con la quale era stata giudizialmente dichiarata la paternità di un soggetto rispetto alla figlia.
Il Giudice del gravame aveva sottolineato, tra l’altro, che la scelta del legislatore italiano di non porre limiti temporali all’esercizio del diritto del figlio di richiedere l’accertamento della maternità o paternità ai sensi dell’art. 270 c.c. non si pone in contrasto con l’art. 8 CEDU; che il giudice di prime cure, giusta il principio di libertà della prova così come sancito dal secondo comma dell’art. 269 c.c., aveva legittimamente deciso di ammettere la c.t.u. finalizzata ad accertare la compatibilità dei profili biologici delle parti; che l’ingiustificato comportamento dell’uomo di sottoporsi all’accertamento peritale poteva costituire “unica e sufficiente prova della propria decisione”.
Avverso tale decisione colui che era stato riconosciuto quale padre proponeva ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi: il primo ed il secondo riguardanti la violazione degli articoli 246 e 116 c.p.c. (inutilizzabilità della testimonianza resa dal figlio della convenuta e controricorrente e delle presunzioni semplici in mancanza dei requisiti di gravità precisione e concordanza); il terzo relativo all’inammissibilità della consulenza tecnica ematico-biologica per violazione degli artt. 111 Cost., 2697 c.c., 115 c.p.c.; il quarto riguardante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., comma 1, nella parte in cui prevede l’imprescrittibilità dell’azione di accertamento giudiziale di paternità rispetto al figlio.

LA DECISIONE. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16128 depositata il 14.6.2019, ha rigettato il ricorso del padre, ritenendo inammissibili i primi due motivi, infondato il terzo e manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale.
La Suprema Corte si è anzitutto soffermata sulla consulenza tecnica e sul valore attribuito dalla giurisprudenza alla mancata e non giustificata sottoposizione della parte agli accertamenti ematologici, ribadendo che:
-    ai sensi dell’art. 269 c.c. non può affermarsi una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori per la prova della paternità e maternità, né l’ammissione degli accertamenti ematologici è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di una relazione o di un rapporto sessuale tra i presunti genitori;
-    “nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche […] costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116 c.p.c., comma 2, di così elevato valore indiziario da potere, da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda”.
Per la Suprema Corte, quindi,

pur non essendo coercibile la volontà di sottoporsi all’esame del DNA, “nulla impedisce al giudice di valutare, in caso di rifiuto, sia pur in sé legittimo, ma privo di adeguata giustificazione il comportamento della parte, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2”.

Per quanto concerne i primi due motivi di doglianza, ritenuti inammissibili, la Corte ha affermato, da un lato, che “la valutazione della sussistenza, o meno, dell’interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., è rimessa, così come quella inerente all’attendibilità dei testi ed alla rilevanza delle deposizioni, al giudice del merito, ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata”; dall’altro, che “nel quadro del principio, espresso dall’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove” l’apprezzamento discrezionale degli elementi probatori acquisiti è anch’esso “insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati”.
Infine, manifestamente infondata si presenta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., comma 1, nella parte in cui dispone l’imprescrittibilità dell’azione per il riconoscimento giudiziale della paternità rispetto al figlio. È stato infatti ribadito che “il diritto al riconoscimento di uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisce una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost., ed all’art. 8 CEDU” e che l’imprescrittibilità è il risultato di un bilanciamento tra la tutela del figlio e l’aspettativa del padre alla stabilità dei rapporti familiari nel frattempo maturati.

 

Allegati

Ok
Questo website usa solamente cookies tecnici per il suo funzionamento. Maggiori dettagli